45 — Sono quello che ho deciso di essere
Oggi compio 45 anni e come ogni anno mi scrivo una lettera
Recentemente ho letto una frase dello psicanalista Adam Phillips che diceva pressapoco così:
Le nostre vite vissute possono diventare un insieme di lutti o un coagulo di rabbia per ciò che avremmo potuto essere e non siamo stati. Ma ciò che alla fine non siamo stati o diventati, per costrizione o per scelta, fa di noi ciò che siamo.
Non so chi sia Adam Phillips, ne ho letto solo questa frase, lo ammetto. Potrei dire che non lo voglio leggere più estesamente per timore che qualcosa nel suo pensiero possa rovinare questa immagine di perfezione, questa epifania che una sua frase di poche righe mi ha donato. In verità sono pigro e non mi interessa, voglio solo parlare, a 45 anni, di ciò che sono, non curandomi molto di ciò che avrei potuto essere.
Innanzitutto: grazie Mr Phillips, mi hai dato l’alibi perfetto per dire che, per quanto non tutto di me mi vada bene e continui, implacabile, a essere severo nei confronti di me stesso, sono diventato quello che ho scelto di diventare. Sono quello che sono, direi con formula un po’ autoassolutoria, ma alla fine è così ed è più saggia di quanto possa sembrare: forse dovrei dire “sono quel che sono diventato” o “sono diventato quel che volevo essere”.
Nelle vite di ognuno ci sono molti accadimenti e cose e imprevisti e deviazioni che non dipendono da noi. Si potrebbe diventare quel che vogliamo essere solo in un ambiente in cui noi si sia l’inizio e la fine di tutto. Un luogo in cui non esiste nessuna perturbazione, nessun accidente. Non nella vita insomma.
Nella vita reale piove e quando piove usi l’ombrello. Banale? Mica tanto e di certo più intelligente che maledire quelle nuvole lassù che t’han scaricato acqua in testa. Sai che gliene frega a loro di te. Sai che gliene frega alla vita di te.
Alla vita ci si adatta, non si può pianificare niente o quasi. Ti si possono presentare una o cento o nessuna possibilità ma alla fine quella che scegli o rifiuti definisce ciò che sei. Alla fine decidi di diventare ciò che sei (e che non sarai più fra qualche anno, magari) sia per ciò che scegli che per ciò che rifiuti. Le opportunità che non sfrutti non sono perse: forse non le volevi cogliere fin da principio e, ancora una volta, si ritorna ciclicamente all’essere ciò che siamo perché a definirci è ciò che abbiamo scelto e voluto e anche ciò che abbiamo rifiutato. Se non si coglie un’opportunità per paura è la paura a definirci e invece di maledirci per aver sbagliato ed essercela lasciata sfuggire, è meglio pensare al perché abbiamo avuto paura.
Il che mi porta a riflettere sul fatto che spesso guardiamo — o guardo, non voglio e non posso elevarmi a paradigma — i problemi dal verso sbagliato. Non ho scelto qualcosa per paura o per scarsa convinzione? Forse non è così: forse ero invece molto convinto e attribuire la responsabilità alla paura è un modo comodo per non assumere l’onere di una scelta. “Ho avuto paura di fallire (è colpa della paura, insomma)”.
Può sembrare gravoso e faticoso ricondurre tutto a sé ma alla fine è proprio così. Nessuno e niente ci costringe a scegliere quello che scegliamo. Alla fine lo decidiamo solo noi, e questa è una cosa che penso e so da anni. Quello che di nuovo mi ha portato quest’anno è una frase di Phillips e la convinzione che ci sono condizioni a margine che ci fanno valutare e decidere (accettare o rifiutare) ma alla fine quello che ci definisce siamo solo noi. In positivo e in negativo.
Siccome anche quest’anno ho ascoltato molta musica, non può mancare una citazione. È di una canzone vecchissima e bellissima e stranota e perfetta, eppure non avevo mai prestato attenzione al testo finché qualcuno non me l’ha fatto notare.
Blackbird dei Beatles dice:
Blackbird singing in the dead of night
Take these sunken eyes and learn to see
All your life
You were only waiting for this moment to be free
L’ho interpretata a mio piacimento così, al di là della sua traduzione letterale. Un merlo impara a vedere. Non a volare, quello lo sa già fare. Ha gli occhi incavati, forse è vecchio. Forse si può imparare a vedere solo nella maturità, solo quando è trascorsa un po’ di vita sotto le nostre ali. E quando si impara a vedere si è liberi.
Quando vola il merlo? Di notte. E non in una notte qualsiasi.
Blackbird fly, blackbird fly
Into the light of a dark black nightVola merlo, vola merlo
nella luce di una nera oscura notte
Una notte insomma talmente nera e oscura da essere come un solido oscuro, impenetrabile. Ma questo buio emette una luce che non si può vedere ma si può solo immaginare. La si può vedere con la mente, la si può sentire. Quella luce è la guida del merlo e lo conduce alla libertà.
Ha aspettato una vita che questo momento arrivasse. Aspetta da sempre di poter guardare nell’oscurità senza bisogno di luce, perché la luce è un’illuminazione interiore, è un’intuizione, è la sapienza del sapere dove andare e come andarci.
Benvenuti 45 anni. È un numero che mi piace: è un parallelo geografico ed è la metà di 90 anni, a cui mi piacerebbe arrivare possibilmente con le rotelle e le ossa al loro posto. Ha qualcosa di letterario e ci sta bene come titolo di un libro, Henry Miller approverebbe. Ho deciso che potrei aggiornare la cifra attorno ai 50 anni, se mi diverto e decido di arrivare a 100.
Oddio, non sono così illuso da pensare di poterlo decidere ma se chiudo gli occhi posso intravedere un bagliore. Non è ancora la luce che vede il merlo nella buia notte oscura però si vede. Illumina una via. Rende liberi.
Alla fine sono quello che ho deciso di essere. E domani lo sarò altrettanto. Magari diverso da oggi, perché a essere sempre me stesso mi annoierei, no? La libertà del volo è che attorno cambia tutto, e tu cambi con tutto.
Buon compleanno a me, buon compleanno a tutti.