Ho fallito

Almeno fino a questo punto, e limitatamente a una cosa

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La storia è semplice: da anni disegno e da qualche mese ho cominciato a vendere i miei disegni. O opere o quadri o come le si vuol chiamare.

A marzo ho aperto un negozio su Shopify. Mi c’è voluto un bel po’ di tempo per farlo, non sapevo niente di inventari, stampatori, consegne, fisco legato a quel settore, marketing, soprattutto marketing. Umilmente, silenziosamente ho fatto una cosa che alla fine amo fare: ho studiato.

A oggi, dopo qualche mese, posso dire che è un discreto fallimento. Pochissime vendite, traffico modesto, tentativi continui di rilancio.

Mi sono dato diverse risposte e ho una sola certezza: andare avanti.

Quello che scrivo oltre è una condivisione degli struggimenti dell’artista in cerca di affermazione (e vendite) e ha un duplice scopo: servire come guida a chi si avvia su questa strada, mostrando gli ostacoli e le vie da evitare ma può anche essere un’ennesima, ben celata, operazione di marketing. Cioè far parlare di me e di ciò che faccio, anche se mi espongo nei miei lati più deboli. Chi lo sa in fondo?

Ho sempre comunicato usando diversi linguaggi: parola, disegno, fotografia, voce. Quando dico quello che faccio ho difficoltà a essere preciso e leggo negli occhi delle persone un’analoga difficoltà nel capire esattamente come e cosa devono considerarmi. Architetto? Scrittore? Illustratore? Docente universitario? Artista? Fotografo? Podcaster? Per semplicità dico che comunico: mi piace farlo, mi viene naturale e credo di saperlo fare anche bene.

In questo frangente mi sono accorto però che comunicare è un conto mentre comunicare sé stessi è un altra cosa. Specie quando devi «venderti», cioè darti un valore.

Ho sempre avuto più fiducia nelle cose che facevo che nella mia capacità di venderle (cioè di darmi un valore) e ho imparato che ciò che fai non si vende da solo.

D’altro canto ho anche osservato moltissime persone capaci di fare cose molto poco interessanti ma capacissime di vendersi (e venderle) benissimo. Le due inclinazioni nella stessa persona sono invece piuttosto rare da trovare.

Ho sempre studiato questo genere di persone: quelle che non fanno niente di particolare ma lo fanno benissimo. Devono aver scoperto un magico meccanismo che a me sfugge. O forse non soffrono minimamente della sindrome dell’impostore.

Riassumendo: un giorno ho deciso che volevo provare a vendere ciò che avevo disegnato e allora ho studiato come farlo dal punto di vista operativo. Siccome non ho mai avuto esperienze del genere e ho sempre dato con generosità e senza chiedere niente in cambio (disegni, foto, grafiche ecc.) ho finito per credere che la qualità di quello che facevo alla fine sarebbe emersa. Ovviamente mi sbagliavo. C’è un’altra cosa che è meglio capire il prima possibile:

Ciò che fai non viene notato finché non lo fai notare. Esistono persone o artisti capaci che sono stati scoperti ma percentualmente sono la minoranza. Di certo le loro opere in quanto oggetti artistici non hanno la forza e la capacità di farsi notare a prescindere. Può capitare ma è rarissimo. Il successo è spesso (quasi sempre) costruito sulle relazioni umane, non sul valore intrinseco del lavoro delle persone.

Con questo in mente ho deciso che avrei fatto quello che è giusto, mettendo da parte l’illusione di poter essere scoperto e di avere finalmente i dovuti riconoscimenti (niente è dovuto): avrei fatto un negozio online e l’avrei promosso. Avrei studiato le tecniche del marketing e le avrei applicate, con la massima umiltà possibile e investendoci dei soldi. E l’ho fatto.

Ho fatto una cosa che di solito il mio snobismo (e la mia insicurezza) mi impediscono di fare: mi son lasciato guidare, non ho pensato di essere più intelligente di quelli che lo fanno per mestiere.

I risultati, come anticipato, sono stati deludenti o deprimenti, a seconda dell’umore della giornata in cui li valuto. È utile a volte immaginarsi di essere alla guida di un’azienda (ti permette di capire i ruoli e di concentrare gli sforzi) e figurarsi una seduta del consiglio di amministrazione in cui si analizzano i dati di vendita: bene, i miei ultimi CdA sono stati più funerei di un requiem mozartiano (e di certo infinitamente meno belli).

Al culmine di un momento di smarrimento – uno durante i quali guardi i grafici degli accessi e delle vendite e improvvisamente capisci cos’è la solitudine dei numeri primi – ho pensato anche di chiamare una prossima collezione «Tenco», con un chiaro riferimento al gesto estremo di quel sommo cantante che si tolse la vita perché, a sua detta, ignorato da tutto e tutti. Ovviamente l’avrei fatto in modo ironico, perché alla fine mi piace sempre sorridere di tutto.

Per farla brevissima, dopo aver intrapreso una strada inedita in ogni senso per me (specie nell’ampio uso di marketing che ho fatto – e ho sempre odiato il marketing) mi sono ritrovato con un negozio che vendeva qualcosa che non pareva interessare a nessuno o pochissimi. Oppure che raccoglieva consensi e apprezzamenti che non si traducevano quasi mai in vendite (non convertivano, cioè – ormai conosco il vostro linguaggio, marketer).

Le spiegazioni erano almeno due:

1. Lo stavo facendo male

2. Di quello che facevo non interessava niente a nessuno, o a pochissimi

Entrambe erano plausibili e se scrivo queste righe, nell’ipotesi che abbiano qualche riverbero, è anche per cercare di capirlo attraverso il riscontro e il dialogo con chi legge.

Delle due ipotesi preferisco ovviamente la prima perché coinvolge strategie che possono essere affinate e cambiate, mentre sulla seconda ho meno leva: il Martino Pietropoli artista parla così e non ho mai fatto quello che sapevo sarebbe piaciuto e avrebbe venduto (la Coca Cola è una categoria merceologica e mentale: piace a tutti e si può trasformare in Coca Cola qualsiasi prodotto umano, artistico o meno). Io non ho mai compiaciuto nessuno: non mi interessa e non mi diverte. Io parlo con la mia voce e faccio quel che mi piace fare, indipendentemente dalle mode, che conosco e che non mi interessano. Fine della dichiarazione artistica.

Come ogni artista – anche se definirmi tale mi infastidisce, gli artisti sono altri ma diciamo che intendo l’espressione nel senso di «Qualcuno che fa qualcosa di inutile e poco produttivo» – amo ciò che faccio e se decido di pubblicarlo è perché lo ritengo meritevole di essere condiviso in quanto bello e, a suo modo, utile. Essendo allo stesso tempo riflessivo e dubbioso, oscillo fra il considerare ciò che faccio buono, decente o vomitevole, a seconda delle giornate. Ma questo è un altro discorso. Per semplificare diciamo che quello che vendo mi piace, ci credo, lo trovo bello e penso che possa portare bellezza nelle vite di altre persone (ho appena coniato un bel payoff, vedi che scrivere serve sempre?). Naturalmente non tutti la pensano così ma siamo diversi miliardi, incontrerò pure il gusto di qualche centinaio di migliaia di persone, alcune delle quali disposte a spendere per avere una mia stampa?

Piano di battaglia

Cosa fai quando hai cose da vendere online? Senza sofisticare troppo la cosa, prepari una strategia che potrebbe andar bene per qualsiasi commercio e la segui il più possibile, aggiustando il tiro in itinere.

  1. Organizzi l’inventario
  2. Prepari il negozio online
  3. Lo pubblichi (lo apri) e lo promuovi, in maniera organica o a pagamento
  4. Ti siedi alla cassa e guardi passare la gente, sperando che guardino la tua vetrina.

Le modalità sono simili a quelle di un negozio fisico, con alcune differenze.

1. Inventario

Nel mio caso si trattava di riordinare le opere e organizzarle in collezioni. La cosa è semplice quando hai già pensato e realizzato gruppi di opere che hanno un filo comune (presentare un messaggio univoco e chiaro è più semplice per chi guarda) mentre è più complicato quando ne hai fatte centinaia slegate fra di loro. Ma è anche interessante rintracciare il filo conduttore che unisce cose fatte in diversi momenti e con spiriti diversi perché è indicatore del tuo stile (sull’argomento non entro nel dettaglio ma dico solo che non averne uno esplicito — come nel mio caso — può essere un problema, non in sé ma per l’immagine che l’artista trasmette, perché è difficilmente identificabile come una semplice idea, tipo “Botero è quello che fa le persone ciccione”).

2. Negozio

Ci sono diverse piattaforme di commercio online che permettono di aprire un negozio. Dopo varie valutazioni ho scelto Shopify. Senza dilungarmi dico per quali motivi:

A. Semplicità di configurazione e personalizzazione
B. Costo ragionevole (29 €/mese)
C. Assistenza (sia attiva che passiva, attraverso le guide e le spiegazioni passo-passo)
D. Integrazione con servizi esterni. Io avevo necessità di uno stampatore che si occupasse anche della logistica e fornisse un prodotto di alta qualità. L’ho trovato nei londinesi Printspace, scelti anche perché attraverso una semplice app le opere che ho caricato sui loro server si sincronizzano con Shopify e gli ordini relativi vengono gestiti senza alcun mio intervento. In altre parole: è tutto molto semplice.

Poche note riguardo alle scelte fatte per il negozio
Ho sempre apprezzato chi propone poche cose ben organizzate. Sono nemico dell’infinità possibilità di scelta. Per capirci: Apple è un esempio virtuoso perché propone un numero limitato di prodotti in una maniera semplice e diretta.

Nello studiare il mio negozio (che non volevo chiamare “store” perché non vendo magliette e allora l’ho chiamato “studio”) ho deciso di avere dei punti fermi: doveva essere in inglese e doveva presentare le opere in collezioni (come gallerie, o mostre). Per chiarezza e anche per rispetto del visitatore-cliente.

Una volta mi sarei limitato a mostrare ciò che facevo, in questo caso ho seguito i consigli di Shopify: ho parlato di me (nessuno ti conosce, devi dire chi sei e cosa fai), ho scritto perché ciò che propongo è interessante (value proposition, circa).

Altre linee guida: scrivere pochissimo, dilungarsi solo su ciò che può interessare il cliente, ossia la descrizione di ciò che vorrebbe comprare (come è fatto, su quale supporto, in quanto tempo verrà evaso l’ordine, come verrà spedito, se le spese di spedizioni sono gratuite o meno ecc.). Unica concessione alla parola: facendo soprattutto pittura astratta ed essendo difficile scrivere qualcosa di interessante al riguardo, ho deciso di accompagnare ogni opera con un racconto brevissimo, che non c’entra necessariamente con quanto si vede, anzi quasi mai.

3. Promozione

A questo punto bisogna farsi conoscere. È importante distinguere fra marketing a pagamento e organico. Parto con il primo.

Promozioni
Dove si fanno le campagne pubblicitarie nel digitale? Su Facebook, Instagram, Google e Pinterest. Per qualche mese non ho lasciato niente di intentato.

Ne ho pianificate in funzione della geolocalizzazione, volendo che il mio messaggio viaggiasse verso aree specifiche, dove pensavo potesse essere apprezzato: grandi città, clienti mediamente facoltosi, Occidente opulento o Oriente altrettanto ricco. Insomma: ho cercato un mio pubblico, la mia clientela. O almeno ho tentato di immaginarla. Forse non ci siamo trovati.

Le campagne hanno raggiunto decine (a volte centinaia) di migliaia di persone con esiti modestissimi, sia in termini di traffico e, di conseguenza, di vendite.

In certi momenti mi sono chiesto a cosa servisse spendere 5/10 volte quello che guadagnavo. Per creare un effetto volano? Perché all’inizio bisogna spendere tantissimo e poi, col tempo, si raccolgono i risultati? E quando finisce questo salasso?

In altri momenti mi sono chiesto se non sarebbe stato più intelligente destinare il budget delle campagne pubblicitarie alla produzione di stampe o cartoline da regalare a clienti selezionati, sperando poi che da loro la voce iniziasse a circolare, trasformandosi in vendite (odio parlare in termini così espliciti e commerciali ma ho anche capito che è inutile girarci attorno, di ciò si tratta).

Organico
Con questo termine si indica ciò che avviene naturalmente, cioè, in altre parole, senza “spingerlo con i soldi”, senza promuoverlo insomma. Intendo quindi: parlarne sui canali social, generare discussioni, pianificare coupon, sconti, newsletter, fare A/B testing, retargeting, SERP, whatever.

Non mi riesce molto facile vendermi: come dicevo prima, ad alcuni la cosa riesce, ad altri no. Alla fine mi son detto che non si può sapere far tutto e che nessuno — o pochissimi — alla fine riescono in qualsiasi cosa provino a fare. Però ci si può provare. E l’ho fatto.

Riguardo al parlarne nei propri canali social: non so bene se chi mi conosce consideri questa mia attività come secondaria, non la prenda sul serio oppure non gli interessi o trovi pure brutto ciò che faccio. Questo per dire che avere più o meno seguito o confidenza con le persone sui social non serve a molto: senza rancore verso nessuno (davvero) ho capito che è più facile vendere a uno sconosciuto che a chi già ti conosce. In altri termini: l’ambiente dei social a cui si appartiene non è generalmente costituito da clienti, né acquisiti né potenziali. Bisogna quindi uscire dalla bolla e non fare quasi affidamento su quel capitale umano, che diventa significativo solo quando si misura in centinaia di migliaia di persone, e io sono lontanissimo da quei numeri.

Come si esce dalla bolla? Con il marketing a pagamento. E se non funziona o funziona pochissimo pure quello? È un problema, e io sto esattamente in quel punto, arenato.

4. I clienti

Dopo aver eseguito ogni procedura possibile e come da manuale non resta che servire i clienti: accettare gli ordini, rispondere a eventuali messaggi, controllare la gestione dei prodotti in lavorazione, pianificare e creare nuove collezioni, pensare a come promuoverle allargando la base di clienti potenziali, tenersi in contatto con quelli acquisiti proponendogli nuove opere e sconti. Il fatto è che a questa fase non ci sono praticamente mai arrivato.

Non mi interessa minimamente dare la responsabilità alla teoria perché è la pratica che evidentemente ha dimostrato i suoi limiti. Quindi mi interessa di più — molto di più — capire cosa avrei potuto fare diversamente e come.

Cosa è andato storto?

1. È troppo presto per valutare

Qualche mese di attività non è significativo e sono numerosissimi i casi in cui le cose non funzionano per lungo tempo e poi iniziano a ingranare. Oppure esplodono improvvisamente. Vallo a sapere.

L’aspetto positivo è che non vendo niente che ha una data di scadenza o che sarà fuori moda fra sei mesi. Time is on my side.

2. Il prezzo

Non sono un artista affermato e, si sa, una delle cose più difficili è dare un prezzo alle proprie opere. Il modo più semplice è quello di aggiungere un margine alle spese di produzione, considerando gli inevitabili sconti che si devono praticare (almeno 15–20% per i nuovi clienti) e sino a una soglia ragionevole. Se si è artisti affermati il discorso cambia e si possono proporre (quasi) tutti i prezzi che si vuole.

3. Promozione

Le campagne promozionali non hanno raggiunto una massa critica per limiti di budget, per incomprensione dei (complicati) gestionali pubblicitari delle varie piattaforme, perché la comunicazione è stata completamente sbagliata. Sono tutte spiegazioni plausibili ma non saprei dire quale sia la più giusta. So che i risultati sono evidenti e non sono bellissimi.

4. Gradimento

Può benissimo essere che quello che faccio non piaccia/interessi. Magari piace ma non a quei prezzi, magari non incontra il gusto neanche di una microscopica porzione di qualche miliardo di persone (sarebbe già tantissimo) o quella porzione non l’ho mai intercettata.

5. Comunicazione

Ci sono mille cose che potrei fare, come da manuale, per costruire la tanta blandita bestia mitologica dei digital marketer, ossia la community. In questo caso si può distinguere fra quella che ho già (che già mi segue su Twitter, Facebook, Instagram, Medium) — che come già detto difficilmente si trasforma in clientela e che evidentemente mi vede come qualcosa di diverso — e quella che potrei costruire da zero. Per farlo dovrei far crescere l’account Instagram (l’unico su cui allo stato delle cose vale la pena impegnarsi) operando all’interno dei meccanismi proprio di quel social, cioè interagendo a mia volta, seguendo persone, pubblicando stories, coinvolgendo. Lo so ma ne ho pochissima voglia. Confesso un mio limite: continuo a considerare quel mezzo come una vetrina e poco più, non ho voglia di farci i numeri, non ho soprattutto tempo da investire a fronte di un ritorno che è puramente aleatorio.

Conclusioni

Non so bene cosa fare, se non continuare a fare. Non so se insistere sulla promozione a pagamento per poi vedere indici di conversione così deprimenti. A un certo punto mi sono messo a leggere articoli sul come vendere con zero marketing ed è una cosa che fai quando sei così disorientato da trovare ragionevoli anche gli articoli che ti dicono che per aumentare la produttività devi fare una doccia ghiacciata alle 6 del mattino ogni giorno (esiste, l’ho pure tradotto quindi sì, c’è chi crede anche a quelle idiozie).

Il fatto è che la strategia del marketing zero è pur sempre una strategia di marketing e che rifuggire dal marketing digitale significa ripiegare su quello fisico, cosa che per un negozio online è un po’ paradossale. O forse no? Non lo so, davvero.

Per ora e qui mi andava solo di essere spietatamente sincero e diretto, nella speranza di poter aiutare con l’esempio anche chi vuole intraprendere questa strada o ci si trova in mezzo, come me.

In tal caso: sentiamoci.

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Martino Pietropoli

Architect, photographer, illustrator, writer. L’Indice Totale, The Fluxus and I Love Podcasts, co-founder @ RunLovers | -> http://www.martinopietropoli.com