I propositi, né buoni, né cattivi
Quello per il 2019 è di farne solo più avanti, quando capita
Alla fine dell’anno scorso mi ero ripromesso di annoiarmi di più nel 2018. Non per la noia in sé ma per osservare di più. Per essere meno assorbito dalle distrazioni e per tornare a fare qualcosa di così antico e aulico come dedicarmi alla lentezza e alla meditazione.
Ho fallito abbastanza clamorosamente ma invece di indugiare nello struggente senso di colpa ho pensato che i buoni propositi esistono per almeno due motivi: per tentare di cambiare e come promemoria. Non conta necessariamente rispettarli perché qualcosa ti insegnano: si fanno ricordare e se scosti quel velo di incompiuto e quella sottile accusa alla tua insipienza e incapacità di fare e rispettare un impegno, resta comunque il senso di quell’accordo che avevi preso con te stesso.
Che poi, i buoni propositi non si fanno solo il primo dell’anno. Così sanno tanto della forza di volontà mista al senso di colpa: siccome non li hai mantenuti nell’anno passato, giuri e spergiuri che li manterrai adesso, in quello nuovo. Invece i buoni propositi li devi fare a tradimento, tipo un mercoledì di marzo alle 11 del mattino.
Io ne ho fatti (e mantenuti) alcuni che non erano riferibili a quello più importante preso a inizio anno e me li sono giurati un giorno qualsiasi.
Per esempio:
- Ho smesso di commentare la politica, specie lo stillicidio di tweet di quello là e l’insieme compatto di idiozie e incapacità del governo. Non è per niente difficile: basta contare fino a 10 e pensare alla Tempesta del Giorgione o a un Rothko a caso. È un po’ come il cane di Pavlov: quando sentiva il campanello pensava che fosse ora di mangiare e salivava. Io invece di salivare di rabbia penso che sia ora di contemplare un Rothko o un capolavoro rinascimentale. Beneficio assicurato.
- Ho letto di più, molto di più, anche se sospetto che sia per un unico motivo: ho trovato libri più interessanti. Perché leggere è impegnativo ma deve essere un piacere e leggere per dovere sociale è idiota. Per questo ho smesso di sentirmi in colpa se non finisco un libro: niente di personale, semplicemente quella storia non mi interessa. Non muore nessuno, non sono migliore o peggiore. Semplicemente non mi interessa.
- Ho usato meno avverbi. O quantomeno ho difficilmente cercato di usarne meno. Non dico che non li uso più, dico che ne uso meno.
- Ho usato meno i social. Non ho smesso ma li ho usati molto meno. Non per una qualche dieta dimagrante all’americana (“Non ho usato Facebook per un mese ed ecco cosa ho scoperto”. Cosa avrai mai scoperto? E chi se ne frega soprattutto — infatti non li leggo mai quegli articoli) ma perché mi sono stufato. Perché preferisco parlare con le persone nello stesso spazio ontologico e non scrivendo. Non sempre almeno. E poi il contatto diretto regola molto meglio alcune cose, tipo che a uno con cui non sei d’accordo non gli auguri di morire così facilmente, anche perché potrebbe prenderti a pugni. E farebbe benissimo.
- Ho ascoltato di più, specie le persone di cui ho fiducia. Mettendo in pratica quello che mi consigliavano. Ho fatto fare un passo indietro al mio ego. Direi che se non mi servisse a creare e pensare lo manderei pure in pensione anticipata. Ma forse è presto.
- Ho tagliato corto certe discussioni che non portavano a niente.
- Ho cercato di creare un certo equilibrio nell’impiego del tempo della giornata: lavoro da qui a lì, questioni personali da lì a là, tempo per me stesso in quell’intervallo là. Bisogna cercare di badare a mille cose, possibilmente dando un contributo o delle risposte, ma non sempre e solo ad alcune. Tipo il lavoro (ho letto un bel titolo di un articolo che ovviamente non ho letto che diceva “Se parli di quanto lavori e di quante ore ci dedichi vuol dire che lo stai facendo male”, o qualcosa del genere)
In questo 2018 ho osservato di più o almeno ogni volta che potevo, ricordandomi dell’impegno preso. Non quanto e come avrei voluto ma l’ho fatto. Ogni volta ho ricordato la promessa: guardando un albero, aspettando un treno, camminando.
Non ho fatto tutto ma ho fatto qualcosa. La promessa ha cambiato qualcosa in me.
Si fanno i buoni propositi con l’idea di mantenerli e poi li si mette in pratica — si tenta almeno — con esiti più modesti. Eppure servono e cambiano qualcosa nella mente. Un piccolo processo, una modalità, un’abitudine.
È più importante farli o rispettarli, quindi? Farli, senza dubbio. Ne basta anche uno solo, bello grande: dire di più grazie. Fare più spesso il pane. Sorridere di più. Un solo buon proposito. Poi c’è un anno per farne altri e altri ancora e per non rispettare quello di inizio anno ma ogni volta ci ripenserai: non per sentirti in colpa ma perché un giorno hai pensato che quella cosa fosse importante. Punto.