Il linguaggio dell’architettura / Parte prima
Come tutte le arti, anche l’architettura parla un linguaggio. A partire da quello classico e fino a quello contemporaneo, ecco come si è evoluto nel corso della storia.
Nota: quella che segue è la trascrizione rieditata di una lezione che ho tenuto durante una Summer School di Ca’ Foscari e Harvard alla Biennale di Architettura 2018. Per comodità di consultazione è stata divisa in due parti: la prima riguarda il linguaggio classico dell’architettura ed è ispirata al testo fondamentale di John Summerson, la seconda quello moderno e contemporaneo, ed è un’interpretazione personale di cui mi assumo la responsabilità.
Il titolo originale è “The Language of Contemporary Architecture”.
Vorrei iniziare ponendovi una domanda:
Qual è secondo voi la più importante invenzione dell’uomo?
La ruota? Il fuoco forse? L’arco magari.
Nessuna di queste cose, o almeno secondo me.
Secondo me la più grande invenzione dell’uomo è il linguaggio.
Il linguaggio è fondamentale perché ha permesso all’umanità di sentirsi unita, ha sviluppato il senso di comunità.
Noi umani abbiamo altri modi per manifestarci vicinanza: possiamo abbracciarci, possiamo aiutarci. Il linguaggio però ha aggiunto qualcosa alle nostre capacità: ci ha permesso di costruire e strutturare le conoscenze e di trasmetterle alle generazioni future. Ci ha resi ancora più una comunità perché ha trasceso la vicinanza fisica e ha aggiunto un’altra dimensione: con il linguaggio possiamo trasmettere conoscenze che ci fanno sentire parte di un tutto più grande di noi anche attraverso il tempo. Con il linguaggio in un certo senso possiamo viaggiare nel tempo. E quello che faremo oggi è proprio un viaggio nel tempo.
Il linguaggio classico dell’architettura
Fino a non molti secoli fa l’architettura si esprimeva in un linguaggio codificato e riconoscibile: quello classico. Se torniamo indietro nel tempo incontriamo prima i greci e poi i romani. Le loro architetture erano e sono facilmente riconoscibili perché usano un linguaggio che si esprime invariabilmente usando alcuni elementi ricorrenti. Si tratta di un’architettura così riconoscibile che anche oggi, quando vediamo un edificio antico, sappiamo riconoscerne il linguaggio: si basa sulle colonne, sugli archi, su particolari regole.
Il Partenone è sempre un buon esempio e spiega cos’è il linguaggio classico dell’architettura: è un insieme di regole molto precise che governano l’utilizzo degli elementi architettonici e la loro composizione. Le colonne devono essere fatte in un certo modo e devono avere certe proporzioni; la distanza fra di loro deve essere un multiplo del loro diametro, così come la loro altezza e la loro entasi (cioè il rigonfiamento del fusto della colonna a circa un terzo della sua altezza — si tratta di un artificio ottico che le fa sembrare più slanciate e che corregge l’effetto opposto: se infatti non ci fosse essere apparirebbero spanciate verso il loro interno). Si tratta di una vera e propria grammatica: gli elementi architettonici sono le parole e le regole che ne ordinano la composizione sono la grammatica.
Per questo si parla di ordini architettonici e quando dico “ordini” tutti capiamo che ci riferiamo a quelli classici: il dorico, lo ionico e il corinzio.
Poi ci sono anche il toscano e il composito, ma insomma: le basi sono queste.
È curioso notare che fino al Rinascimento — che già dal suo nome indica una sorta di “rinascita” — pochi si fossero premurati di dare un ordine agli ordini, e perdonate il gioco di parole. Lo fece Vitruvio nel I secolo A.C. ma poi abbiamo dovuto aspettare che gli architetti e gli studiosi rinascimentali osservassero, ridisegnassero e cercassero di dedurre le regole compositive classiche deducendole dalle rovine greche e romane. E quando Palladio o Vignola visitavano Roma si trovavano di fronte monumenti abbastanza famosi come il Colosseo.
Il Colosseo è giustamente famoso per la sua maestosità ed eleganza ma oggi ci interessa per un altro motivo: questo monumento è una specie di trattato dell’architettura in 3D. Se osservate per esempio come sono impiegati gli ordini nei tre livelli vi accorgete che non sono tutti uguali. Alla base c’è il dorico, sopra lo ionico, nell’ultimo il corinzio. Anche questa è una regola compositiva classica. Parliamo di un linguaggio, no? Il rispetto delle regole del linguaggio permette di essere chiari e di dire ciò che si vuol dire. Nel caso dell’architettura permette anche di ottenere la bellezza, l’armonia, la simmetria e tante altre cose interessanti.
Poco distante dal Colosseo trovate anche quest’altro monumento importantissimo: è l’Arco di Costantino e fu costruito per celebrare la vittoria di Costantino contro Massenzio. Quello che ci interessa oggi è però che anche in questo caso potete notare degli elementi classici: ci sono le colonne (corinzie, in questo caso), c’è un’imponente trabeazione, ci sono statue e varie decorazioni. C’è anche qualcosa di nuovo, ossia degli archi: uno maggiore al centro e altri due minori ai lati. L’architettura greca non usava l’arco perché costruttivamente non avevano ancora capito come realizzarlo mentre i romani vi riuscirono perché svilupparono le tecniche costruttive che glielo permisero.
Nonostante questo monumento utilizzi elementi classici e moderni — almeno per il tempo in cui fu costruito — e sia comunque bello, armonioso ed equilibrato — ci fornisce un altro importante indizio: il linguaggio si evolve attraverso l’uso e, come dire, nuove parole e nuove regole trovano spazio nella sua grammatica. Così anche il linguaggio dell’architettura si evolve e accoglie l’arco, per esempio, come in questo caso.
Ora facciamo un salto nel tempo piuttosto importante: andiamo a Mantova, molti secoli dopo l’Arco di Costantino. Siamo nel XV secolo e Leon Battista Alberti ha disegnato la Basilica di Sant’Andrea. Se ci entriamo possiamo notare che le cappelle laterali alla navata principale sono costruite compositivamente in maniera analoga all’Arco di Costantino.
Mancano gli archi minori ai lati di quello principale ma solo perché la sequenza di archi non permette la compresenza di elementi di diverse dimensioni. Gli archi insomma devono avere tutti la stessa altezza. Se mettessimo in fila diversi archi di Costantino uno accanto all’altro gli archi minori verrebbero “mangiati” e si trasformerebbero in pilastri, come infatti ha giustamente fatto Leon Battista Alberti.
Fermiamoci ora a riflettere: quello che stiamo vedendo è qualcosa di molto simile a un monumento romano di secoli prima, reinterpretato in maniera diversa. È familiare ma anche diverso: familiare negli elementi classici ma diverso nella composizione. Stiamo “ascoltando” un linguaggio conosciuto ma usato in maniera nuova e più moderna.
E il viaggio continua: torniamo a Roma, per la precisione a San Pietro in Montorio, dove Bramante costruì un piccolo tempietto. Ma non lasciamoci ingannare dalle dimensioni: si tratta di uno dei più importanti esempi di architettura rinascimentale, anche se è davvero di dimensioni contenute. Così contenute che sta all’interno di un cortile dove sembra entrarci quasi a fatica. Eppure anche in uno spazio così limitato, Bramante seppe creare un capolavoro dell’architettura, armonioso, proporzionato e bello.
Compositivamente il tempietto ha pianta centrale ed è un cilindro con un portico colonnato al primo livello e una cupola in sommità. Le colonne sono doriche, perfettamente disegnate e proporzionate. La distanza fra di loro non è causale ed è sicuramente stata scelta con cura da Bramante per dare un senso di pace ed equilibrio. Magari non ve ne accorgete razionalmente ma vi assicuro che quando siete là avete solo sensazioni positive.
In un piccolo spazio e utilizzando una grammatica classica, Bramante creò qualcosa di compositivamente nuovo e lo fece non tradendo il linguaggio classico. Il tempietto ha elementi classici ma, ancora una volta, usa un linguaggio moderno perché li “monta” in un modo mai visto prima di allora.
È un linguaggio che si aggiorna e si rinnova più che un nuovo linguaggio.
L’opera del Bramante fu così importante che influenzò quella di molti architetti dopo di lui.
Questa è la cupola di Saint Paul di Christopher Wren a Londra. Fu costruita quasi due secoli dopo ma le affinità con il tempietto di San Pietro in Montorio sono evidenti. Ci sono però delle differenze: innanzitutto non la si può fisicamente approcciare come il tempietto perché sta in cima a Saint Paul ed è fatta per essere ammirata anche da molto lontano. Inoltre l’intercolunnio (la distanza fra le colonne) del suo porticato è molto minore di quello scelto da Bramante. In questo caso la sensazione che comunica è di un’architettura più perentoria, assertiva e nervosa. Il contrario di quanto fece Bramante che privilegiò la dolcezza compositiva. Vedete? Potrebbero sembrare la stessa composizione architettonica e in un certo senso lo sono, eppure comunicano cose completamente diverse.
Ma gli esempi dell’influenza di Bramante non si fermano qui. Ne cito solo un altro paio ma potrebbero essere molti di più: il primo è la biblioteca nota come The Radcliffe Camera a Oxford, progettata da James Gibbs tra il 1737 e il 1749 e il secondo è un edificio molto famoso, ossia il Congresso degli Stati Uniti a Washington, progettato e costruito da William Thornton tra il 1793 e il 1800. La biblioteca è un edificio a pianta centrale che non tradisce le sue discendenze bramantesche e il secondo ha una cupola che cita quasi letteralmente quella di Wren a Londra.
Dall’Arco di Costantino a Sant’Andrea, dal tempietto di Bramante al Congresso americano. Eppure non siamo ancora arrivati ai giorni nostri perché prima dobbiamo soffermarci a parlare di altri importantissimi architetti rinascimentali.
Il primo, Giulio Romano, proveniva da un’agiata famiglia romana. Era versato in molte arti: era pittore, progettò complesse scenografie teatrali per gli spettacoli dei signori e nobili del tempo, fu un architetto di grandissima e gioiosa inventiva. Lavorò alla bottega di Raffaello a Roma e nel 1521 venne invitato dai signori di Mantova, i Gonzaga, a progettare un palazzo molto particolare. Sito al di fuori della città — almeno per quei tempi, oggi si trova in un grande parco ormai integrato nel tessuto urbano — Palazzo Te fu commissionato a Giulio Romano da Federico II Gonzaga perché voleva avere un ritiro appartato e monumentale in cui riposare o dare sontuose feste per illustri ospiti o reali. L’ispirazione fu quella delle ville romane e l’inventiva di Romano ebbe qui modo di esprimersi a livelli incredibili.
Se osservate una delle facciate per esempio potreste trovarla tutto sommato normale. Ma se guardate con più attenzione troverete dei dettagli che sembrano fuori posto. Nella trabeazione per esempio dei conci stanno scivolando verso il basso. Altri elementi sono sproporzionati rispetto al canone e altri invece sono sottodimensionati. Giulio Romano riuscì a divertirsi e divertire con il linguaggio classico: lo usò in maniera ingegnosa e anche ironica, pur riuscendo a ottenere complessivamente un disegno composto, aulico e molto classico. Decorò anche gli interni con affreschi complessi e ricchi di simbologie spesso esoteriche ma è la veste architettonica che oggi ci interessa.
Palazzo Te era ed è un luogo quasi surreale in cui le regole — anche quelle statiche — potevano essere sovvertite ed effettivamente venivano sovvertite. E Romano fu capace di farlo pur parlando un linguaggio classico. Ma con un tono di voce diverso e rimescolando le carte.
Un altro architetto abbastanza famoso operò qualche decina di anni dopo a Roma: si chiamava Michelangelo Buonarroti, per gli amici solo “Michelangelo”. Lui non nacque come architetto ma lo diventò in età matura: è vero, disegnò ancora relativamente giovane la Biblioteca Laurenziana a Firenze e soprattutto la sua monumentale e plastica scala. Progettò anche facciate di chiese e tombe papali ma potremmo dire che queste furono esperienze più scultoree che propriamente architettoniche. Nel 1538 invece, attorno ai 50 anni, ottenne l’incarico di ridisegnare la piazza del Campidoglio a Roma per sistemare la statua equestre del Marc’Aurelio.
Si trattava di un progetto non solo architettonico — visto che disegnò anche le facciate dei palazzi che vi si insistevano, ma anche urbano, con l’invenzione straordinaria ed elegantissima della piazza ellittica al cui centro troneggia la statua. Osservando i due palazzi gemelli che prospettano sulla piazza — Palazzo dei Conservatori e Palazzo Nuovo — si può apprezzare l’invenzione di Michelangelo: quella dell’ordine gigante.
Le colonne classiche che ripartiscono le loro facciate non sono colonne ma pilastri e inoltre sono alte due piani, da cui il nome “ordine gigante”. Il loro capitello è corinzio e osservando il portico sulla piazza si nota che ci sono anche altre colonne, di altezza “normale” — cioè un livello — ma di ordine ionico. Come quelle del primo piano. Ricordate il Colosseo e la progressione verticale degli ordini: dorico, ionico e corinzio? Michelangelo la nega, saltando quello dorico, impiegando su due livelli sovrapposti quello ionico e raddoppiando quello corinzio. Per non parlare dei dettagli sopraffini delle finestre. Da quelle si capiva quanto Michelangelo amasse l’architettura perché disegnò delle finestre così elegantemente decorate da essere qualcosa in più della pura scultura e qualcosa in meno dell’architettura. Eppure nel suo complesso questa è architettura, in una delle sue massime espressioni.
Andrea Palladio non nacque a Roma e le sue umili origini lo avrebbero potuto destinare a una vita anonima, se non addirittura di stenti e povertà. Era figlio di un mugnaio e fin da giovane lavorò come scalpellino. A Padova fu però notato dal conte vicentino Giangiorgio Trissino che ne intuì il talento e ne finanziò i viaggi di studio a Roma, oltre a essere colui che gli diede il nome aulico di Palladio. Nella capitale studiò l’architettura classica, la ridisegnò integralmente e ne ricavò in tarda età i Quattro Libri dell’Architettura che pubblicò assieme a un altro suo mentore, Daniele Barbaro, che curò la traduzione di Vitruvio dal latino.
Palladio disegnò molte ville venete, utilizzando elementi indiscutibilmente classici in composizioni architettoniche nuove e moderne. Quando visitiamo una sua opera non possiamo che decretare che sia classica, anche se nessun greco o romano l’avrebbe mai progettata come fece lui.
Prendiamo ad esempio Palazzo Chiericati a Vicenza.
Ci sono elementi che riconoscete facilmente: sono le colonne doriche al piano terra e quelle ioniche al primo. In questo caso Palladio rispettò la sequenza verticale canonica. Eppure, nonostante la sua forma lineare e geometrica, nessun architetto greco l’avrebbe mai progettato così. Questo approccio alla composizione — cioè a come si combinano elementi rigidi e codificati in forme via via più complesse — è ancora più evidente in altre opere di Palladio, come nelle ville in cui seppe adattare alle esigenze pratiche di tenute di campagna (che a volte erano aziende agricole vere e proprie) o a ville suburbane il linguaggio classico dell’architettura. Queste erano l’invenzione e la capacità del Palladio: conosceva così bene un linguaggio da poterne operare sottili ed eleganti variazioni, senza snaturarlo ma anzi, dandogli un lessico più contemporaneo.
Qui a Venezia per esempio c’è la Chiesa del Redentore. Credo — ma non penso di essere smentito — che sia un’opera magnifica. Ve la mostro senza commento ma solo per raccontarvi una cosa divertente che mi è capitata cercandone qualche immagine in Google. Sapete che a volte — specie quando cercate ristoranti o luoghi famosi — Google vi dice anche come i suoi utenti hanno valutato quei posti. Insomma, una cosa utile, una specie di recensione brevissima. Non ho potuto non notare che il Redentore ha ottenuto solo 4 stelle e mezzo. Un buon punteggio che tuttavia mi ha lasciato con un dubbio: perché non 5 stelle? Perché non il massimo? Perché qualcuno gli ha dato mezzo voto o meno? Forse perché non c’è un ampio parcheggio all’esterno? Ehi, siamo a Venezia!
Scherzi a parte, un ultimo accenno va fatto in merito ai due più importanti architetti del primo Barocco italiano, ossia Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini.
Ci sono molti aneddoti che narrano della rivalità fra i due e probabilmente sono veri o ci piace crederlo. Quello che conta è però che furono due straordinari architetti — il primo fu anche un incredibile scultore — e cambiarono ancora una volta il linguaggio dell’architettura. O forse dire che lo cambiarono non è corretto. Vi aggiunsero declinazioni e parole nuove, inventarono inedite strutture lessicali.
Osservando la facciata o l’interno di San Carlo alle Quattro Fontane del Borromini non si può non notare che al linguaggio classico qui è successo qualcosa. È ancora classico nelle sue parti ma ha acquisito una nuova dimensione: una profondità data dal flettesti e curvarsi della sua facciata. Non si può non restare stupiti dalla capacità del Borromini di immaginare degli spazi così complessi costruttivamente. Oggi ci siamo abituati: le architetture che vediamo sono strane e hanno forme bizzarre. Sembrano quasi animali partoriti dalla fantasia di architetti dalla fervida immaginazione. Ma, appunto, oggi è quasi normale vedere cose del genere perché ci sono i computer ad assistere la mente prolifica dei progettisti. Borromini invece aveva solo il suo cervello ad assisterlo. E una straordinaria capacità di prefigurare spazi, risolvendoli allo stesso tempo dal punto di vista compositivo, nel rispetto dei codici dell’architettura. Non era facile, per niente.
Per esempio — ma potrei dilungarmi parlando di innumerevoli casi particolari — quando una trabeazione viene piegata e flessa si pongono diversi problemi compositivi: come si comportano le colonne sottostanti? Che intercolunnio bisogna adottare? Non sono questioni marginali eppure lui le risolse brillantemente: quando siam dentro San’Ivo alla Sapienza o osserviamo il rincorrersi e incontrarsi delle curve che lui disegnò percepiamo un equilibrio pur nel nervosismo compositivo.
Semplificando dobbiamo ammettere che, pur nella complessità di queste opere, ogni cosa è al suo posto.
L’architettura di Bernini era forse più composta e meno sensuale di quella del Borromini, eppure vi si può vedere un’analoga capacità di piegare il linguaggio in nuove forme. Lo fece tra l’altro su di una scala che resta tutt’ora inesplorata per dimensioni: il portico di San Pietro è uno dei più grandi mai costruiti, forse ancora il più grande.
Sapete da quante colonne è composto? 280, alte più di 15 metri. Qualcosa di grandioso e trionfale per simboleggiare l’abbraccio di Madre Chiesa ai suoi fedeli. Se guardate la sua forma infatti vedete che è chiaramente un abbraccio e questo è l’effetto che se ne ha passeggiando in quella piazza: una forza vi circonda e vi spinge prospetticamente e spazialmente verso la Basilica di San Pietro. Eppure se osserviamo da che elementi è composto notiamo che ci sono molto familiari: sono colonne doriche. 280 gigantesche colonne in travertino disegnate nel vecchio, caro ordine dorico. Ma arrangiate secondo una geometria che nessun greco avrebbe mai immaginato.
Ancora una volta: un linguaggio familiare ma pronunciato in maniera diversa.
Concludo questa prima parte mostrandovi un edificio che forse vi sarà familiare.
È la Widener Library di Harvard e ho constatato con un certo stupore che non è nemmeno tanto vecchia: è del 1912.
Non avrete problemi a definirlo un edificio classico, credo: ha un portico lineare che usa colonne corinzie, ha una trabeazione con un fregio che ne ricorda la fondazione, esattamente come il Pantheon a Roma. Senza che nessuno vi spieghi cosa c’è dietro quella facciata potrete capire che si deve trattare di un edificio importante e pubblico. Questo sa comunicare l’architettura classica, anche se costruita molti secoli o millenni dopo che fu eretta la prima colonna dorica mai scolpita: questo edificio è importante, è bello, è armonioso e proporzionato.
Perché lo è? Perché lo percepiamo come tale e perché rispetta delle regole.
Di queste regole e della loro crisi nei tempi moderni parleremo nella seconda parte.