Il linguaggio dell’architettura / Parte seconda
Il linguaggio classico dell’architettura entra in crisi nell’era moderna. A chi parla e come parla oggi l’architettura?
Nota: quella che segue è la trascrizione rieditata di una lezione che ho tenuto durante una Summer School di Ca’ Foscari e Harvard alla Biennale di Architettura 2018. Per comodità di consultazione è stata divisa in due parti: la prima riguarda il linguaggio classico dell’architettura ed è ispirata al testo fondamentale di John Summerson; questa seconda parte riguarda quello moderno e contemporaneo, ed è un’interpretazione personale di cui mi assumo la responsabilità.
Il titolo originale è “The Language of Contemporary Architecture”.
Prima di procedere a parlare del linguaggio contemporaneo dell’architettura dobbiamo soffermarci ancora un attimo su quello classico. Dobbiamo insomma parlare di Vitruvio e di quanto scrisse sulle qualità che un’architettura deve avere.
Sino a qui abbiamo parlato degli elementi e degli ordini classici ma spesso mi avete sentito citare la parola “composizione” o il verbo “comporre”. Come ogni linguaggio, anche quello architettonico ha delle regole e serve a comporre un discorso, a comunicare.
Il discorso dell’architettura sono gli edifici, composti da parole che sono i suoi elementi.
Vitruvio individuò tre caratteristiche che l’architettura deve avere: firmitas, utilitas e venustas.
Firmitas
Potrebbe sembrare che mi contraddica mostrandovi le piramidi di Giza, ma stiamo parlando di firmitas, ossia solidità. Cosa di meglio per illustrare l’idea di edifici che resistono indomiti da millenni? Le piramidi furono costruite per conservare le spoglie divine dei faraoni e furono quindi progettate per durare il più a lungo possibile. Per costruirle demolirono letteralmente delle montagne e le trasferirono a chilometri di distanza. È difficile trovare esempi altrettanto eloquenti di qualcosa costruito avendo a cuore la sua solidità e durata nel tempo, anche se non si tratta di esempi classici. Nel qual caso avrei comunque potuto ripetermi citando nuovamente il Colosseo o qualche altro centinaio di edifici o templi o basiliche che hanno sfidato i secoli e sono giunte sino a noi intatte o quasi. Quanti edifici vengono progettati oggi per durare millenni? Azzardo una percentuale: 0%.
Utilitas
L’architettura deve avere un’utilità. Se si considera che l’atto di costruire di cui l’architettura ne è scienza e arte ordinatrice — come dire — nasce dal bisogno umano di proteggersi costruendo un rifugio, è chiaro che questa sua origine debba essere preservata e perseguita.
Al giorno d’oggi questa qualità è entrata in crisi in un modo che Vitruvio non poteva prevedere. Mi spiego meglio: al suo tempo non era dato che un tempio fosse disegnato come un mercato olitorio e una casa patrizia come un tempio. Esistevano delle tipologie ben codificate che rendevano gli edifici riconoscibili. Ancora oggi di fronte a delle rovine romane possiamo indovinare se sono quelle di un tempio o di un palazzo pubblico.
Di quanti edifici moderni possiamo invece capire la funzione semplicemente guardandoli? Ci sono chiese che assomigliano ad attrazioni da Luna Park, hotel che sembrano banche e banche che sembrano bar. Faccio delle semplici constatazioni, non voglio fare il moralista: certe contaminazioni sono spesso molto creative e proficue. Dico solo che oggi è un po’ più difficile essere sicuri di cosa stiamo guardando.
L’esempio che ho scelto è, ancora una volta, apparentemente ingannevole: si tratta del pozzo di San Patrizio a Orvieto, progettato da Antonio da Sangallo il Giovane nella metà del ‘500. Perché vi starei ingannando? Scherzo, ma quello che intendo è che non è facile capire a prima vista di cosa si tratta. Un cannocchiale astronomico? Il pozzo di una gigantesca scala? No: si tratta di un pozzo fatto costruire con un intento ben preciso, ossia approvvigionare d’acqua la città di Orvieto in caso di assedio. A quel tempo vi risiedeva il papa fuggito da Roma dopo il Sacco. La sua funzione/utilità era chiara: doveva servire a procurare acqua. Il modo superlativo in cui Sangallo lo progettò è indice di quanto l’utilitas gli stesse a cuore, e anche la venustas, perché no: il pozzo è infatti accessibile con due rampe indipendenti percorribili da asini e conducenti che potevano scendere e risalire senza mai incrociare i flussi. Ed è così bello da essere anche minimalista e perfino moderno.
Ma vorrei anche mostrarvi le straordinarie scale di Villa Farnese a Caprarola. Si tratta di una villa con un impianto pentagonale. Un po’ strano per una villa suburbana e infatti la sua storia ha almeno due fasi: in quella iniziale doveva essere una fortezza e la disegnò Antonio da Sangallo il Giovane che poi morì durante la sua costruzione. A terminarla fu chiamato allora il Vignola. Nel frattempo erano venute meno le necessità difensive e quindi si decise di trasformarla in una villa patrizia. Ecco da cosa nacque quindi questa straordinaria scala. Eppure si trattava pur sempre di una scala, quindi di una parte di costruzione di servizio. Il Vignola invece creò un capolavoro di bellezza e arguzia compositiva. Questa volta usando elementi classici come le colonne doriche binate. Vi ricordano qualcosa? Esatto: il tempietto del Bramante. In quel caso le colonne doriche chiudevano un portico ma in questo caso il Vignola va anche oltre: le accoppia e le dispone non solo circolarmente ma anche lungo una spirale. Le scale di Villa Caprarola sono una specie di tempietto di Bramante sviluppato su di una spirale, e spero dicendo ciò che né Bramante né Vignola si rivoltino nella tomba.
Sono belle nel senso di venustas, di cui parliamo adesso.
Venustas
La vetustas indica l’aspetto più estetico, se vogliamo: l’architettura deve insomma essere bella, armoniosa, proporzionata. Dato che molti elementi che la compongono provengono dal mondo naturale e che le sue proporzioni sono lette dall’uomo come corrette e coerenti o meno a seconda dell’accordo che trovano o meno con le sue dimensioni e proporzioni, un edificio deve esprimere queste qualità.
L’edificio che ho scelto per parlarvi di questa qualità è uno dei più famosi — giustamente famosi e celebrati — in tutto il mondo: è il Pantheon a Roma, inaugurato da Agrippa nel 37 AC e ricostruito da Adriano 150 anni dopo quando venne distrutto da un incendio. Questo tempio che dal nome stesso si evince essere dedicato a tutte le divinità — passate, presenti e future — può degnamente chiudere il discorso sulla trilogia di qualità che l’architettura classica deve avere. Vediamo perché.
Firmitas — si tratta sicuramente di un edificio destinato a durare nei millenni. I muri del tamburo destinati a sopportare le spinte verticali scaricate dalla immensa cupola di 43,44 m di diametro in calcestruzzo raggiungono in alcuni punti lo spessore di 4,5 metri e sono in mattoni e calcestruzzo (che al tempo esisteva già, anche se non armato, ovviamente). Al centro la cupola è aperta da un foro di 9 metri di diametro. Finché Brunelleschi non costruì l’immensa cupola del Duomo di Firenze questa rimase la più grande mai costruita dall’uomo.
Utilitas — il Pantheon è un tempio a pianta centrale preceduto da un pronao esterno che ne denuncia con chiarezza la sua destinazione: è progettato come un tempio che non si risolve in sé stesso ma funge da spazio intermedio per accedere poi all’ambiente centrale vero e proprio. Non si può sbagliare: questo è un tempio.
Venustas — Il Pantheon è uno spazio di rara armonia perché, pur nelle sue notevoli dimensioni, è concentrato e potente. Al suo interno ci si potrebbe alloggiare una sfera dello stesso diametro della cupola. Semplici forme geometriche e solide ne governano la composizione. È insomma uno spazio perfettamente equilibrato, che condensa le sue forze in un momento di rara potenza compositiva.
Ma l’architettura non è bella, utile e duratura solo quando è massiccia. All’altra parte dello spettro potremmo mettere infatti l’architettura gotica, di cui qui cito solo l’esempio della Cattedrale di Charteres costruita nel 12° secolo. Anche qui ci troviamo di fronte a una costruzione che ha una funzione chiara, è costruita in modo da durare nel tempo ed è molto bella. Ma è allo stesso tempo un’architettura economica: non nel senso che costi poco (ne dubito) ma nel senso che usa la minor quantità di materiale necessaria per ottenere questo risultato: le sue parti solide indicano infatti la direzione delle forze che la sostengono e che si scaricano a terra e tutto il resto è vetro. Difficile ottenere di più con meno materiale.
L’era moderna
Ci avviciniamo ora nel nostro viaggio all’era moderna e ai giorni nostri.
Quella che vedete è la Looshaus a Vienna. Fu progettata da Adolf Loos nel 1909. Loos era un architetto austriaco che, se al tempo l’avessero già inventato, potremmo definire minimalista. Sicuramente inorridirebbe a essere definito così, ma almeno potrete capire quello che intendo. Per farvelo anzi capire meglio vi dirò che scrisse un saggio che si intitolava “Ornamento e delitto”. Sì, Loos ce l’aveva con l’ornamento e non stupisce quindi che questo suo importantissimo edificio ne fosse totalmente o quasi privo. Le uniche concessioni che fece furono quelle dell’uso di un pregiato marmo verde al piano terra. Ma non lo fece per questioni estetiche: voleva distinguere la funzione commerciale da quella residenziale che risolse invece ai piani superiori con un semplice intonaco tipico delle tradizione costruttiva viennese. Dal punto di vista compositivo è un edificio semplice: le finestre sono finestre, il portico è un portico. Tutto è al suo posto. Eppure la sua forza dirompente può essere colta solo se ci si volta e si guarda cosa fronteggia: l’Hofburg, ossia la residenza dell’imperatore.
Non si potrebbe immaginare niente di più diverso e infatti quando venne ultimato il paragone fu inevitabile, così come fu impossibile non considerarlo un affronto. A Vienna in quegli anni sembrava che tutti odiassero la Looshaus e furono così violenti gli attacchi che Loos andò in depressione.
Ma la storia gli diede ragione perché dall’inizio del ‘900 in poi l’architettura era destinata a prendere una strada che l’avrebbe portata lontanissima dalle sue origini classiche. Spogliarla dei suoi ornamenti fu solo l’inizio e Loos colse un sentimento che in Europa era sempre più manifesto: l’uomo moderno stava mettendo in discussione sé stesso, le conoscenze scientifiche, i fondamenti del vivere civile e, con quelli, la visione del mondo che sino a quel punto aveva dominato e ordinato il mondo. L’umanità si stava avviando verso un viaggio con destinazione sconosciuta e il linguaggio stesso entrò in crisi. E con quello, anche l’architettura.
Il luogo dove tutto ciò avvenne non è casuale: Vienna era una città in forte fermento culturale in quegli anni. E non solo culturale: anche scientifico, e basta citare la fondazione della psicologia con Sigmund Freud. Quello che venne letto al tempo come un periodo decadente che portò dopo pochi anni al primo conflitto mondiale non deve però essere confuso con un’era degenerata. Si trattò anzi di un tempo interessantissimo da molti punti di vista. Così interessante che continua a dirci cose che capiamo benissimo anche a più di un secolo di distanza.
In quegli anni l’arte iniziò a smarcarsi dal classicismo. Artisti come Klimt, Moser, Schiele e molti altri riuniti nella cosiddetta Secessione Viennese fecero qualcosa di impensabile: fondarono un nuovo linguaggio. Non so se avete presente cosa significhi una cosa del genere ma potrei riassumerlo semplicemente così: non è facile. È rivoluzionario.
L’edificio che diede una presenza tangibile a questo movimento fu il Palazzo della Secessione. Non è questo il momento e il luogo per approfondire l’opera di questi artisti ma vi faccio osservare le sembianze che questi artisti diedero alla loro “casa”, disegnata da Joseph Maria Olbrich.
Riconoscete qualche elemento classico? Qualche colonna dorica? Qualche capitello corinzio? Vi aiuto io: non ne cercate perché non ne troverete neanche uno. Questa era un’architettura che cercava nuovi stili e, se non poteva trovare parole nel linguaggio classico, ne fondava uno nuovo.
Fu un punto di rottura culturale, artistico e psicologico per l’intera Europa e, da lì in poi, per l’uomo moderno. Gli stili classici non potevano più descrivere l’inquietudine che cresceva nella società. La solennità degli ordini apparteneva a un’altra epoca. Il secolo appena nato era quello che avrebbe visto due conflitti mondiali e una guerra tattica che sarebbe finita solo dopo molti decenni con il crollo del muro di Berlino.
Vi faccio osservare che le guerre mondiali sono definite da un numero. La prima indica che non ve ne furono altre prima: quella che si combattè fra il 1915 e il 1918 fu la prima guerra in cui tutto il mondo venne coinvolto, o almeno le sue più grandi e potenti nazioni. Tempi mai visti si stavano preparando.
Nuovi stili, nuovi linguaggi
Concedetemi ora una semplificazione: è necessaria per non caricare di dettagli questa lezione e per arrivare prima al punto finale di questa discussione.
L’architettura moderna ha preso diverse strade dalla Looshaus in poi. Si espresse in modi diversissimi: dovremmo parlare dell’Art Nouveau, dell’Art Deco, del Liberty, del Neoplasticismo e di tante altre correnti artistiche. Oggi voglio concentrarmi solo su due in particolare, perché sono sopravvissute meglio alle altre e perché, per molti versi, sono ancora vitali tutt’oggi. Parlo dell’architettura razionalista e di quella organica. Qualche immagine vi chiarirà meglio cosa intendo.
Razionalismo/International Style
Quella che vedete è Ville Savoye di Le Corbusier. È considerata un manifesto dell’architettura razionalista e, più tardi, dell’International Style. Quest’ultimo è un’invenzione — diciamo: non nel senso che non sia esistito ma nel senso che il nome deriva da un’importantissima esposizione del 1932 curata da Philip Johnson al MoMA di New York. Quello che Johnson individuò ed espose al MoMA era un nuovo stile, internazionale appunto: vi appartenevano architetti europei e americani (ok, in questo senso “internazionale” è un po’ occidentale-centrico, ma mi potete capire) che si esprimevano con un linguaggio comune. Individuarlo è semplice: è privo di decorazioni, si esprime con volumi semplici, superfici piatte, tetti piani, assenza di colori. Potremmo definirlo razionalista e non sbaglieremmo.
Questo stile venne declinato poi in molti modi e anche utilizzando diversi materiali ma la sostanza è che la matrice era comune e portava a una semplificazione razionale del linguaggio architettonico.
Nella Schröder House di Gerrit Rietveld per esempio lo studio del colore arricchisce lo spazio e crea un ponte fra architettura e pittura dando una tridimensionalità agli studi di artisti neoplastici come Theo Van Doesburg o Piet Mondrian.
Il padiglione di Barcelona disegnato da Mies van der Rohe per l’Esposizione Internazionale del 1929 è invece un edificio razionalista che usa materiali pregiati come travertino e marmi e colonne cromate di disegno cruciforme.
Mies van der Rohe è noto anche per il suo detto “Less is more” quindi ci siamo capiti, no?
L’altro stile di cui dobbiamo parlare è l’esatto opposto, ma non parlo di uno stile neobarocco o iperdecorativo. Parlo dello stile organico.
Architettura organica
La Robie House a Chicago di Frank Lloyd Wright potrebbe non sembrare una casa organica: ci sono degli angoli retti, quindi non è organica, no? Non proprio.
Organico è ciò che pare generarsi spontaneamente dal terreno ed è questo il caso della Robie House.
Piuttosto dovremmo valutarla compositivamente per come le parti che le danno forma si rapportano fra di loro e allora potremmo capire che sì, ci sono angoli retti, ma il loro senso è quello di appartenere a solidi che sembrano nascere e giustapporsi secondo una logica organica gli uni agli altri.
Sicuramente organica è la Casa sulla Cascata, la sua opera probabilmente più famosa. Costruita su una cascata, è giustamente celebrata come uno dei capolavori più alti dell’architettura moderna perché sembra essere nata assiema a questa. L’impiego dei materiali e la sua forza espressiva sembrano accentuare ancora di più quella naturale dell’acqua e, pur essendo opera dell’uomo, rendono questo luogo ancora più bello. Gli aggiungono qualcosa, in un certo senso.
E ancora: Alvar Aalto e le sue architetture che tanto hanno significato per esprimere e far conoscere al mondo il sentimento per la natura del finlandesi e in genere dei popoli nordici.
Di certo queste poche immagini possono già darvi un’idea di qualcosa di più naturale, se non altro nei materiali impiegati, giusto?
Ma l’architettura organica, avrete capito, non è definita solo dai materiali che usa ma piuttosto dall’atteggiamento che ha nei confronti della composizione. Non c’è niente di classico in questi edifici e non c’è neanche niente di razionale. Sicuramente sono architetture funzionali, nel senso che assolvono al loro compito principale (utilitas) ma sono il risultato di un atteggiamento mentale molto più libero espressivamente di quello razionalista o almeno meno mediato.
L’architettura oggi
Siamo giunti all’ultima parte di questo viaggio. Siamo ai giorni nostri e parliamo di edifici che vengono costruiti oggi o sono stati costruiti negli ultimi 10 o 20 anni. Parliamo insomma di architettura contemporanea.
Ricordate che siamo partiti da molto distante: dal linguaggio di quella classica: dalle colonne e dalle qualità che un’architettura deve avere secondo Vitruvio. Poi abbiamo visto come all’inizio del secolo scorso questo linguaggio sia stato messo in discussione e superato. Da quel momento in poi non esisteva più un unico linguaggio da imparare per esprimersi: ognuno sceglieva quello più congeniale e, se non esisteva, se lo inventava. Fra i numerosi linguaggi che si sono alternati ne ho scelti due in particolare perché sono arrivati integri e vitali ai giorni nostri e soprattutto sono mutati, fondendosi. Il razionalismo è mutato recentemente nel minimalismo, mentre l’organicismo ha avuto mille moti espressivi diversi. Solo recentemente però hanno trovato modo di unirsi in un linguaggio nuovo. Il suo nome deriva da un modo di progettare basato sull’uso del computer. La chiameremo Architettura Parametrica.
Architettura Parametrica
Senza la Computer Science non ci sarebbe Architettura Parametrica. Si tratta infatti di un tipo di architettura e di linguaggio strettamente legati all’uso del computer. Detto in poche parole:
L’Architettura Parametrica si basa sull’utilizzo di computer e di algoritmi per creare oggetti/edifici le cui parti sono legate fra di loro. È un’evoluzione della modellazione 3D classica perché gli elementi che la compongono hanno relazioni fra di loro: se ne muovete uno, tutto il resto del modello si adatterà a questo cambiamento.
Personalmente considero quest’architettura come il risultato della fusione di razionalismo e organicismo in questo senso: il razionalismo ha a che fare con l’uso del computer mentre l’organicismo è legato al risultato che si ottiene usando questo approccio.
Qualche esempio vi potrà aiutare a capire meglio.
Il Mercedes-Benz Museum a Stoccarda di Ben Van Berkel ha poco più di 10 anni: è del 2007. È uno dei primi esempi di architettura progettata usando il design parametrico. Cosa se ne può dire? Che è stupefacente, che sembra un mostro che si è autogenerato, che è interessante, che è bello o brutto. È difficile approcciarsi esteticamente — ammesso che ormai abbia alcun senso farlo — a questo tipo di architettura.
Se lo dovessimo giudicare da un punto di vista vitruviano potremmo dire che rispetta l’utilitas: è un museo e immagino che come tale funzioni bene.
E secondo la firmitas? Durerà per lungo tempo? Non ne sarei tanto sicuro e la stessa cosa la si può dire di quasi tutta l’architettura realizzata in questi ultimi decenni. Abbiamo iniziato questa conversazione parlando del Colosseo e dell’Arco di Costantino. Questi monumenti sono ancora in piedi dopo più di duemila anni. Potrebbe darsi che sia dovuto al fatto che sono costruiti con materiali durevoli come il marmo, la pietra e i mattoni, certamente. Questo è costruito in cemento, alluminio, vetro e acciaio. Sarà ancora in piedi fra 2000 anni? Ne dubito. Forse sarà una rovina ma più probabilmente al suo posto ci saranno erba e piante e anatre che se ne vanno a spasso.
Infine: vetustas. È bello? Non ha più senso ormai parlarne in termini estetici. Non sto dicendo che il Mercedes Benz Museum sia bello o brutto, giusto o sbagliato. Lo valuto solo dal punto di vista del suo linguaggio: è il risultato di due forze che si sono unite, e cioè quella razionale e quella organica. Già solo per questo è interessante.
Un altro esempio è quello della Philharmonie de Paris di Jean Nouvel.
Innanzitutto una curiosità: Jean Nouvel stesso non ne ha riconosciuto la paternità. Credo — da quanto ho capito — per dei contrasti su alcuni dettagli, non sulla forma generale. Ammetto di non esserci stato ma dalle foto che ne ho visto non ne sono neanche particolarmente attratto. Lo uso come esempio perché qui non c’è davvero più niente che possa ricordare un’architettura classica. È persino difficile individuare un elemento statico come un semplice pilastro. Questo edificio è significativo di ciò che si può fare oggi nella progettazione e, ripeto, non ne do alcun giudizio estetico, e tantomeno avrebbe senso dire che in termini di architettura classica è un disastro: sono due linguaggi diversi ed è scorretto metterli a confronto. Piuttosto posso dire che se il linguaggio classico non parla più all’uomo moderno dall’inizio del secolo scorso, questo è il nuovo linguaggio — o almeno uno dei possibili linguaggi — che descrive la contemporaneità. Forse, ma lo dico come provocazione, l’uomo contemporaneo ha difficoltà a descriversi in termini comprensibili.
E potrei andare avanti ma mi limiterò ad alcuni casi particolari come quello di Frank Gehry, che deve moltissimo al design computerizzato e oggi a quello parametrico.
Gehry dà sempre l’impressione di guardarti con uno sguardo ironico, come se non volesse darti la certezza di essere serio o di scherzare. Però ammetto che la Foundation Louis Vuitton che ha terminato qualche anno fa nel bellissimo Bois de Boulogne a Parigi è un edificio notevolissimo. Non in senso classico ma perché lo è in quanto etereo pur essendo grande come un gigantesco insetto (ma altrettanto leggero, almeno visivamente).
Un altro tipo di architettura che si vede sempre più spesso è quella di Bjarke Ingels, fondatore di BIG, ossia Bjarke Ingels Group (anche se BIG è un acronimo voluto e proporzionale alle sue ambizioni).
Io odio Ingels. Scherzo ovviamente. Lo studio da anni perché è stato in grado di fondare uno studio che dal nulla è diventato uno dei 10 più importanti al mondo. E l’ha fatto in poco più di 10 anni. E ha la mia età ed è famosissimo e io no. Quindi lo odio. Dai, scherzo.
Questo è uno dei suoi primi edifici costruiti a Copenhagen. Un condominio grande svariati isolati, una cosa davvero mastodontica.
Uso questo come esempio perché recentemente mi sono imbattuto in questo suo progetto più recente di un edificio ad Amsterdam e aveva qualcosa di familiare: è lo stesso capovolto! Ehi Bjarke, stai finendo le idee? (scherzo!).
E poi come non citare Zaha Hadid, una delle più celebrate architette degli ultimi 30 anni? Il computer le è stato fedele servitore e le ha permesso di realizzare le sue idee spaziali più ardite.
Ora: guardiamo per qualche istante questi edifici e cerchiamo di capire se la loro forma ci indica in qualche modo a cosa servono. Non saprei dire se siano generati più dalla voglia di stupire dei loro autori o dal fatto — più o meno consapevole — che questo è uno dei possibili linguaggi con cui parla l’architettura d’oggi. So per certo che non hanno alcuna caratteristica vitruviana: se li osservate non c’è modo di capire cosa succede dentro, né si può dirne che siano belli o brutti e tanto meno che dureranno 2000 anni.
La casa di Zaha Hadid potrebbe sembrare un osservatorio astronomico e l’Heydar Aliyev Center a Baku in Azerbaijan è un centro congressi e un museo. Ma non lo potreste mai capire guardandolo dalla piazza di fronte.
Per concludere, io credo che di fronte all’architettura contemporanea noi tutti siamo come quelli che videro per la prima volta un Jackson Pollock. Uso il suo esempio perché lo amo e perché credo che chi lo vide per la prima volta non lo capì. Come biasimarlo del resto.
Noi tutti guardiamo l’architettura contemporanea come se fosse un Pollock: non la capiamo perché parla un linguaggio che è ancora in evoluzione ed è solo uno dei tanti linguaggi che continuano a formarsi incessantemente.
Non è una spiegazione risolutiva, me ne rendo conto. Ma penso anche che da più di 100 anni siamo in crisi come uomini, donne e quindi società. Non abbiamo un linguaggio comune e ne cerchiamo sempre di nuovi. Non abbiamo nemmeno stabilità, di nessun tipo ormai. Ci sentiamo sempre minacciati e, in ultima analisi, non siamo mai tranquilli. La crisi è diventata la normalità e non riconoscere più forme familiari e comprensibili espresse in linguaggi codificati è ormai più normale che entrare in una chiesa che sembra una chiesa.
Di fronte ai nuovi linguaggi, di qualsiasi tipo essi siano, ci troviamo sempre impreparati. Non capiamo bene la realtà e non la decifriamo di certo con facilità. Però il linguaggio riflette la società che l’ha inventato. Questo è il nostro linguaggio e forse ci sarà fra di noi un Vitruvio che gli darà un ordine o qualcuno che fra 2000 anni spiegherà a una classe di studenti — se esisterà ancora una cosa chiamata “università” — che lingua parlavano gli architetti di 2000 anni prima.
Sono tempi carichi di segni, lingue diverse, messaggi contradditori. Ma sono i nostri tempi, è il nostro tempo ed è anche molto, molto interessante.
Grazie.