La messa laica
Quando Jobs presentò l’iPhone scrissi questo pezzo. Dopo 10 anni ci presi praticamente su tutto.
Ho visto una buona parte della Keynote Address in cui Steve Jobs ha illustrato l’oggetto in questione e ne sono rimasto rapito. Il culto dei tempi moderni non contempla l’incenso e il rito imperscrutabile, ma conserva invece la stessa capacità persuasiva del rito irrazionale: luci soffuse, la Verità e soprattutto il Sacerdote.
Jobs è il sacerdote: aggiornato e updated, parla un linguaggio scarno e semplice eppure persuasivo. È capace e dice spesso “It’s so easy”, “Easy, uh?” e molti “Cool, ya?”. Cool si traduce con “fico”. Non ci sono molte varianti: è proprio, indiscutibilmente, ciò che è fico, che bisogna possedere, che è facile possedere. Basta pagare. La messa laica si svolge al Moscone Center, alla MacWorld Conference dove periodicamente Jobs espone i risultati commerciali raggiunti da Apple e i nuovi prodotti. Una messa richiede un officiante e un’assemblea. L’officiante è Jobs — carico, pompato, sicuro e confidente — l’assemblea è il pubblico. Il pubblico è un filo più rumoroso di quello di una messa. A messa, solitamente al mistero dell’eucarestia non segue un’ola. Qui invece ogni passaggio abilmente confezionato dalla regia è sottolineato da un’ovazione. Il pubblico è di parte, ma è sinceramente esaltato dal potere taumaturgico di Jobs: lui è quello che ci condurrà alla salvezza, lui è il Profeta.
La cultura laica manca della messa, così come manca di un’adeguata celebrazione dell’inizio e della fine, della nascita e della morte. Il culto non può essere sostituito dalla burocrazia — pare fino pleonasitico dirlo — salvo quando la trascendenza si incarna in un profeta che non teorizza la felicità dopo, ma qui, adesso: basta avere un iPhone fra le mani.
Jobs è tremendamente persuasivo: quasi quasi mi convinceva che l’iPhone è quello che mi manca per essere felice. Perché il genio di Apple oscilla fra i due poli: avere una quota minoritaria del mercato informatico e dei sistemi operativi (molto minoritaria), e pompare in quella sacca fluidi messianici. Se non puoi avere il dominio commerciale, puoi avere quello delle menti. Puoi ricondurre la battaglia economica ad uno scontro morale fra il Bene e il Male. Il Bene conduce alla felicità, e l’Apple è il suo strumento. Apple è il Bene, Apple fa le cose Bene.
La messa è univoca: ha il punto di partenza nell’officiante e quello di arrivo nell’assemblea. Non c’è flusso inverso, se non l’applauso, l’ovazione, l’osanna.
Pensavo a questo mentre Jobs aveva la cortesia di illustrarmi puntigliosamente perché la mia vita manca di qualcosa, e quel qualcosa si chiama iPhone. In quell’assemblea si adorava la Materia, ma non una qualsiasi: è una materia che ti definisce, che ti fa appartenere ad un consesso di agenti del Bene. È richiesta solo l’accettazione del dogma (“Ciò che produce Apple è Bene, comunque”), ma la ricompensa è la felicità, a 800 euro al pezzo, suppergiù.
La sulfurea prosa del Jobs mi aveva a tal punto rapito che ho stentato ad accorgermi di un dettaglio affatto secondario, e forse più rivoluzionario — almeno dal mio punto di vista, o da quello del design in senso lato: che l’iPhone è il grado zero del design, è la sua negazione, è un oggetto indifferente al design stesso. L’iPhone è bidimensionale e la sua terza dimensione è l’accidente che deve fare girare il sistema operativo. È una sacca di materia che contiene i circuiti e il processore, è un pieno indifferente ed infatti Jobs non ha granchè da dirne: è fico, sì, ma la cosa veramente cool è altrove. È il touch screen, è la bidimensionalità dell’oggetto, è la sua indifferenza alla profondità, allo spessore, alla matericità. Un sistema operativo allude alla tridimensionalità, ma solo illudendo l’utente. La terza dimensione lo rende più comprensibile, ma in verità ciò a cui tende è il non essere più costretto entro una scatola, il non aver bisogno della materia. Potrebbe essere un foglio, una cosa che pieghi e tieni in tasca (quella è la rivoluzione, e lei lo sa bene Jobs — gli spigoli stondati e la finitura satinata son cose per gonzi) perché il dominio del software contabilizza i circuiti e la plastica come una necessaria e gravosa necessità, non come un privilegio, un punto di forza.
E il pezzo potrebbe chiudersi qui. Se non che il ragionamento è filante e quasi compiaciuto nel riconoscere ad Apple questo sguardo lungo, questa tensione messianica: che loro fanno cose, ma ne hanno in mente altre, di così avanti che pochi sono in grado di capirle. Loro puntano alla morte del design, o alla sua necessità e utilità solo quando scorre e pulsa la corrente elettrica: quando i circuiti sono stimolati, quando il processore calcola e computa e restituisce sullo schermo un risultato. Il design sta nelle due dimensioni, nel touchscreen. È pura grafica, è l’effetto di transizione giusto, è un’immagine leccata e ben resa, alla risoluzione giusta. Ma la religione vuole le chiese e il credente vuole mangiare Cristo nella sua carne fatta particola. San Tommaso vuole toccare col dito, esattamente come l’utente deve toccare col dito il messaggio messianico di Jobs, e vedere come reagisce. Sapere che sapore ha. La Chiesa Cattolica l’ha sempre saputo bene e non ha mai affidato la Parola al verbo, ma ha impiegato i toraci sanguinanti, i Cristi crocifissi, la carne, i Santi, la Passione, il Dolore. La materia.
La materia si crea, si plasma, si distrugge. La materia è più persuasiva della parola, perché reagisce, perché dice “Ci sei, perché mi hai plasmato”.
Il nemico di Jobs è la materia: è il dito che indaga e sonda e misura. Ma Jobs vende cose, e le scambia per verità che dovrebbero redimere e salvare, e invece costano 800 euro iva compresa.