La messa laica

Quando Jobs presentò l’iPhone scrissi questo pezzo. Dopo 10 anni ci presi praticamente su tutto.

4 min readFeb 14, 2018

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Ho visto una buona parte della Keynote Address in cui Steve Jobs ha illustrato l’oggetto in questione e ne sono rimasto rapito. Il culto dei tempi moderni non contempla l’incenso e il rito imperscrutabile, ma conserva invece la stessa capacità persuasiva del rito irrazionale: luci soffuse, la Verità e soprattutto il Sacerdote.

Jobs è il sacerdote: aggiornato e updated, parla un linguaggio scarno e semplice eppure persuasivo. È capace e dice spesso “It’s so easy”, “Easy, uh?” e molti “Cool, ya?”. Cool si traduce con “fico”. Non ci sono molte varianti: è proprio, indiscutibilmente, ciò che è fico, che bisogna possedere, che è facile possedere. Basta pagare. La messa laica si svolge al Moscone Center, alla MacWorld Conference dove periodicamente Jobs espone i risultati commerciali raggiunti da Apple e i nuovi prodotti. Una messa richiede un officiante e un’assemblea. L’officiante è Jobs — carico, pompato, sicuro e confidente — l’assemblea è il pubblico. Il pubblico è un filo più rumoroso di quello di una messa. A messa, solitamente al mistero dell’eucarestia non segue un’ola. Qui invece ogni passaggio abilmente confezionato dalla regia è sottolineato da un’ovazione. Il pubblico è di parte, ma è sinceramente esaltato dal potere taumaturgico di Jobs: lui è quello che ci condurrà alla salvezza, lui è il Profeta.

La cultura laica manca della messa, così come manca di un’adeguata celebrazione dell’inizio e della fine, della nascita e della morte. Il culto non può essere sostituito dalla burocrazia — pare fino pleonasitico dirlo — salvo quando la trascendenza si incarna in un profeta che non teorizza la felicità dopo, ma qui, adesso: basta avere un iPhone fra le mani.

Jobs è tremendamente persuasivo: quasi quasi mi convinceva che l’iPhone è quello che mi manca per essere felice. Perché il genio di Apple oscilla fra i due poli: avere una quota minoritaria del mercato informatico e dei sistemi operativi (molto minoritaria), e pompare in quella sacca fluidi messianici. Se non puoi avere il dominio commerciale, puoi avere quello delle menti. Puoi ricondurre la battaglia economica ad uno scontro morale fra il Bene e il Male. Il Bene conduce alla felicità, e l’Apple è il suo strumento. Apple è il Bene, Apple fa le cose Bene.

La messa è univoca: ha il punto di partenza nell’officiante e quello di arrivo nell’assemblea. Non c’è flusso inverso, se non l’applauso, l’ovazione, l’osanna.

Pensavo a questo mentre Jobs aveva la cortesia di illustrarmi puntigliosamente perché la mia vita manca di qualcosa, e quel qualcosa si chiama iPhone. In quell’assemblea si adorava la Materia, ma non una qualsiasi: è una materia che ti definisce, che ti fa appartenere ad un consesso di agenti del Bene. È richiesta solo l’accettazione del dogma (“Ciò che produce Apple è Bene, comunque”), ma la ricompensa è la felicità, a 800 euro al pezzo, suppergiù.

La sulfurea prosa del Jobs mi aveva a tal punto rapito che ho stentato ad accorgermi di un dettaglio affatto secondario, e forse più rivoluzionario — almeno dal mio punto di vista, o da quello del design in senso lato: che l’iPhone è il grado zero del design, è la sua negazione, è un oggetto indifferente al design stesso. L’iPhone è bidimensionale e la sua terza dimensione è l’accidente che deve fare girare il sistema operativo. È una sacca di materia che contiene i circuiti e il processore, è un pieno indifferente ed infatti Jobs non ha granchè da dirne: è fico, sì, ma la cosa veramente cool è altrove. È il touch screen, è la bidimensionalità dell’oggetto, è la sua indifferenza alla profondità, allo spessore, alla matericità. Un sistema operativo allude alla tridimensionalità, ma solo illudendo l’utente. La terza dimensione lo rende più comprensibile, ma in verità ciò a cui tende è il non essere più costretto entro una scatola, il non aver bisogno della materia. Potrebbe essere un foglio, una cosa che pieghi e tieni in tasca (quella è la rivoluzione, e lei lo sa bene Jobs — gli spigoli stondati e la finitura satinata son cose per gonzi) perché il dominio del software contabilizza i circuiti e la plastica come una necessaria e gravosa necessità, non come un privilegio, un punto di forza.

E il pezzo potrebbe chiudersi qui. Se non che il ragionamento è filante e quasi compiaciuto nel riconoscere ad Apple questo sguardo lungo, questa tensione messianica: che loro fanno cose, ma ne hanno in mente altre, di così avanti che pochi sono in grado di capirle. Loro puntano alla morte del design, o alla sua necessità e utilità solo quando scorre e pulsa la corrente elettrica: quando i circuiti sono stimolati, quando il processore calcola e computa e restituisce sullo schermo un risultato. Il design sta nelle due dimensioni, nel touchscreen. È pura grafica, è l’effetto di transizione giusto, è un’immagine leccata e ben resa, alla risoluzione giusta. Ma la religione vuole le chiese e il credente vuole mangiare Cristo nella sua carne fatta particola. San Tommaso vuole toccare col dito, esattamente come l’utente deve toccare col dito il messaggio messianico di Jobs, e vedere come reagisce. Sapere che sapore ha. La Chiesa Cattolica l’ha sempre saputo bene e non ha mai affidato la Parola al verbo, ma ha impiegato i toraci sanguinanti, i Cristi crocifissi, la carne, i Santi, la Passione, il Dolore. La materia.

La materia si crea, si plasma, si distrugge. La materia è più persuasiva della parola, perché reagisce, perché dice “Ci sei, perché mi hai plasmato”.

Il nemico di Jobs è la materia: è il dito che indaga e sonda e misura. Ma Jobs vende cose, e le scambia per verità che dovrebbero redimere e salvare, e invece costano 800 euro iva compresa.

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Martino Pietropoli
Martino Pietropoli

Written by Martino Pietropoli

Architect, photographer, illustrator, writer. L’Indice Totale, The Fluxus and I Love Podcasts, co-founder @ RunLovers | -> http://www.martinopietropoli.com

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