Palloni gonfiati
Perché certi influencer dovrebbero preoccupare tutto il settore
Vorrei provare a leggere la vicenda di Imen Jane da un punto di vista diverso rispetto a quelli di generalizzata condanna di questi giorni. Sul fatto non c’è molto da aggiungere: lei e un’amica fanno un viaggio sponsorizzato da un brand cosmetico a Palermo e dileggiano una cameriera rea di non sapere la storia del locale dove si sono fermate. Dopo poche ore partecipano a una raccolta di rifiuti su una spiaggia e lasciano intendere di essere stati invitate a farlo dalla Onlus che la organizza. Che invece non le ha invitate ma si sa, il virtue signaling va sempre bene.
Resasi conto (Imen, non l’altra) del merdone pestato, il giorno dopo chiede scusa anche agli assiro babilonesi e si dice dispiaciutissima. Ci mancherebbe pure, dico io.
Ci sono altri mille risvolti di questa vicenda che andrebbero analizzati, per esempio riguardo a come ha chiesto scusa e su cosa ha omesso di esprimersi ma semplifico e uso questo recente episodio per parlare della purulenta piaga degli influencer farlocchi e di come da anni — troppi anni — inquinino il mercato. È un dato di fatto, lo si sa, eppure il sistema stesso che loro devastano pare non volere difendersi. Diciamolo esplicitamente: si tratta di individui perniciosi che dovrebbero essere attaccati dagli anticorpi ed emarginati, eppure continuano ad avere attenzione, seguito e denari.
Il loro successo si basa spesso sulla bella presenza e sulla massa di follower che si trascinano dietro. Raramente o quasi mai sulla loro capacità comunicativa di raccontare ciò che pubblicizzano, cioè essenzialmente una storia.
Per loro lo storytelling è una parola, non un modo di dire le cose. Non hanno niente da dire, infatti.
Ripeto: prendo il caso di Imen Jane perché è paradigmatico e non mi addentro nell’analisi del suo profilo e della sua persona pubblica: non ne ho voglia ed è identico a moltissimi altri. Mi limito a dire che a oggi ha avuto più crediti che meriti.
Trovo più interessante analizzare come il loro modello di business sia deleterio per tutto il sistema di marketing che si affida a chi pubblicizza qualsiasi cosa non sapendolo fare e vantando numeri che hanno più attinenza con gli steroidi che con la realtà. E lo faccio partendo da un caso ipotetico: un’azienda di medie o anche grandi dimensioni che oggi volesse pubblicizzare un suo nuovo prodotto con quali criteri di scelta dovrebbe decidere? Allo stato attuale pare che l’unico sia il numero di follower e il miraggio che a un costo relativamente contenuto il proprio messaggio possa arrivare a numerosissime persone. Come, con quali modalità e affidandosi a chi non pare interessare a chi sta affidando il proprio figlio (il prodotto) a qualcuno (l’influencer).
Il caso di Imen Jane fa arrabbiare perché comporta una transazione monetaria (difficile pensare che lo faccia in cambio di un viaggio o di una macchina da caffè, o almeno spero per lei) e perché compromette la professionalità di un settore che, ripeto, dovrebbe emarginare individui del genere. Non ne ha il potere, si dirà, ed è vero. Non esiste una certificazione accademica per questa professionalità e non si può accusare nessuno che dica di fare questo mestiere di esercizio abusivo della professione: si può però spiegare alle aziende come distinguere le persone e le professionalità, facendo loro capire che i criteri di valutazione non possono basarsi solo su i numeri ma sulle capacità, specie quando i numeri sono così facilmente alterabili.
Oppure si può fare una cosa semplicissima: informarsi prima. Valutare il lavoro delle persone e la loro capacità di raccontare. Ci sono moltissimi professionisti e professioniste capaci di dire le cose, trasmettendo passione in quel che fanno, coinvolgendo anche chi — come me per esempio — è distratto o refrattario al marketing. Si può fare dell’ottimo marketing, magari cominciando a non dare l’impressione alle persone che le vuoi fregare o che non ti curi nemmeno di parlare del tuo prodotto ma solo di farlo vedere.
Mi viene in mente per esempio Mariachiara Montera, che parla e scrive soprattutto di cibo. Per quanto l’argomento mi interessi dal punto di vista epicureo non sono interessato a chi se ne occupa, non seguo persone che ne parlano, non leggo niente o pochissimo al riguardo. Eppure non mi perdo un suo post. Perché?
Perché chi è bravo riesce a farti interessare a qualcosa che mai avresti potuto pensare potesse interessarti.
Pare paradossale specificarlo — e casi del genere lo dimostrano molto bene — ma evidentemente chi si occupa del marketing delle aziende che si affidano a certi influencer dovrebbe controllarne l’integrità, esattamente come lo si fa quando ci si affida a un esperto delle cui competenze si ha bisogno: ci si affida a chi ha una solida reputazione, buone referenze e non ha possibilmente mai pestato merdoni.
L’effetto a lungo termine causato dalla permanenza all’interno del sistema di questi individui è che si erode la fiducia non solo nei singoli professionisti ma anche nell’intero settore (agenzie, pr ecc.): la percezione del funzionamento di questi meccanismi promozionali è infatti ormai quella di un sistema in cui tutti fanno così e tutti in fondo non sono affidabili.
Si potrebbe anche essere disillusi e pensare che questo tipo di marketing non riguardi nemmeno più il racconto di un prodotto o di un’azienda ma abbia uno scopo molto più elementare: far sapere che esiste il prodotto, fine. Sarà, ma abbraccio ancora questa visione così romantica del mercato in cui si vendono prodotti fatti con passione e che si vuole raccontare, perché hanno richiesto studio, ricerca e fatica.
Concludo con un modesto suggerimento a quelle aziende che decidono che il budget del marketing può essere destinato a millantatori, basta che ne parlino e si facciano vedere con quell’orologio o a bere quel caffè: destinate quei soldi alla sponsorizzazione di mongolfiere dove ci scrivete «Compra questo o quello, anche se non ci sforziamo nemmeno di raccontarti perché». Lo sforzo comunicativo è lo stesso, l’efficacia del messaggio analoga ma almeno noi ci vediamo uno spettacolo bellissimo. E poi le mongolfiere non pestano mai merdoni.