Raccontare una storia non significa solo raccontare una storia
Nel 2017 si parla ancora incredibilmente di storytelling. Farlo con la fotografia poi è ancora più difficile
A differenza di molti termini di importazione, storytelling sembra avere una resistenza praticamente indistruttibile. Se ne parla da anni come si trattasse del mantra per fare qualsiasi cosa evoluta in termini di comunicazione e lo si evoca per distinguersi da quegli influencer che, complice un bel viso, pensano che citare un prodotto e dirsene felici da quando lo si usa significhi influenzare le masse e spingerle all’acquisto (questo è almeno quello che piace credere alle aziende che li foraggiano e a loro piace credere che loro ci credano).
Poiché la nostra è una cultura ormai prevalentemente visiva, parlando di storytelling ci si riferisce quasi solo implicitamente a quello fotografico. Il fatto però che le immagini siano più immediate delle parole e, rispetto a queste, trascendano anche i problemi di comprensione della lingue (e siano quindi più universali e trans-nazionali) lascia anche credere che raccontare storie per immagini sia più semplice che farlo a parole. Grave errore di valutazione, per almeno due motivi:
- Con una foto si può raccontare una storia in una sola immagine, il che significa che non hai a disposizione tante foto per farlo — quello si chiama fotoromanzo e credo sia ormai caduto in disgrazia
- Farlo in una sola immagine è davvero difficile.
Per meglio spiegare ciò che intendo, parlerò brevemente degli elementi fondamentali di una storia (rimandando anche a questo articolo che spiega molte altre sfumature e che è la traduzione di un’intervista a un bravissimo scrittore americano) e poi userò alcune mie immagini per spiegare perché ne ho scelta una in particolare da una sequenza e perché solo quella fra tutte racconta una storia.
Le parti di una storia
Qualsiasi storia ben strutturata si compone di 3 parti fondamentali: un inizio, uno svolgimento e una conclusione. Lo svolgimento non è una semplice sequenza di fatti che conducono alla conclusione ma piuttosto una sequenza di conflitti e risoluzione degli stessi che hanno lo scopo di generare l’azione, tenere alta l’attenzione dell’ascoltatore e giustificare lo svolgimento in un senso piuttosto che in un altro. La conclusione non è tale poiché viene dopo lo svolgimento della storia, ma è tale perché è generata da una serie di conflitti e risoluzione degli stessi. Banale? Non direi.
Un bambino racconta una storia in maniera diversa da un adulto e generalmente lo fa in maniera molto meno coinvolgente. Il suo racconto è infatti strutturato sulla base di una sequenza lineare e temporale di eventi: A conduce a B che conduce a C; A precede B che precede C ecc.
Il racconto invece è coinvolgente solo quando è narrato in maniera più complessa e non lineare temporalmente: lo svolgimento principale è contrastato da linee narrative secondarie che si svolgono in tempi diversi e spesso distanti dall’azione principale.
La mente adulta è stimolata solo da azioni che non hanno svolgimento lineare ma che sono spesso accidentate: succedono cose che, in contrasto con le prime, ne generano altre. C’è un bel video che spiega per esempio perché la sequenza dell’inseguimento in Mad Max — Fury Road è un capolavoro: perché ha un andamento sinusoidale lungo il quale il protagonista (buono) non trionfa mai nettamente o, comunque, durante il quale la sua azione benigna è sempre contrastata dalle azioni negative dei cattivi.
E nella fotografia?
La fotografia è un’immagine statica. Non ha la libertà di azione di un film, né l’articolazione di un racconto fatto a parole. Eppure, parlando di fotografia, c’è un solo elemento che, a mio parere, permette a un’immagine di raccontare una storia: gli elementi che la compongono devono essere non dico in conflitto fra di loro, ma deve esserci quantomeno una certa tensione. Solo la tensione, che è un’azione congelata nell’attimo dello scatto, lascia presagire, intuire, immaginare il prima e soprattutto il dopo.
Per questo le foto di paesaggi non raccontano storie, per questo le foto con un unico soggetto che non fa niente di particolare difficilmente ne raccontano alcuna, a meno che non si tratti di ritratti particolarmente ben riusciti, ma parliamo di casi molto isolati.
La storia contenuta in una foto è composta dal presente (l’attimo congelato, visibile) e da un passato e un futuro che sono solo allusi, lasciati all’immaginazione, come in questa straordinaria foto di Martin Parr.
O in questa perfetta fotografia di una famiglia americana di Mary Ellen Mark.
Alcune mie foto
Non credo di essere particolarmente bravo a raccontare storie a parole e tantomeno in fotografia, ma a volte mi sono ritrovato a scegliere fra una sequenza particolare una sola foto con sicurezza quasi matematica. Perché? Perché a differenza di altre simili aveva un evidente elemento di tensione che poteva suggerire l’idea della storia.
Intendiamoci: la storia a cui può alludere una foto è un po’ come quelle che si immaginano quando in metro guardiamo chi c’è nel vagone e proviamo a pensare che vita hanno: cosa fanno, di dove sono ecc.
Il prima e il dopo del momento ritratto nella foto appartengono al dominio dell’immaginazione dell’osservatore, specie quando si tratta di una foto sola. Così io ho immaginato il passato e il futuro delle persone ritratte da Mary Ellen Mark o da Martin Parr. Ho creato dei possibili passati e futuri basandomi sulla suggestione della foto stessa. Quei passati e quei futuri non erano visibili in quelle foto, ma scaturivano da elementi di conflitto visibili nell’immagine.
Un giorno ero in piscina e ho visto questa coppia fare il bagno. Ero attratto dalla cuffia fiorita di lei: era così demodé che l’ho trovata subito perfetta. Ho iniziato a scattare. Foto semplici, puramente grafiche e ironiche: una cuffia bianca e fiorita, perfetta.
Poi ho notato un’altra persona al suo fianco. Hanno iniziato a parlare e la sindrome del vagone della metro mi ha assalito: chi erano? Erano sposati? Cosa si dicevano? Da quanti anni si conoscevano? Di dove erano. Le solite cose per ammazzare il tempo insomma.
Però ho notato un’altra cosa: i loro sguardi. Si era creata una qualche tensione di fronte ai miei occhi. Non tensione nervosa — non stavano affatto litigando. Però il legame fra i due era evidente e subito la cuffia fiorita è diventata solo un elemento decorativo interessante ma niente di più: quegli sguardi erano molto più interessanti perché indicavano che c’era una storia fra i due. La scelta finale della fotografia è caduta quindi su un’immagine in cui si vedono entrambi i volti, e la tensione fra i due.
Questa è la scelta finale, lievemente editata:
Ma spesso non servono solo persone per generare tensione e conflitto.
Un altro giorno stavo correndo e mi sono imbattuto in questo cartello di cantiere sul perimetro di un’area di cantiere ormai abbandonata. Pubblicizzava quello che avrebbero costruito e che ormai era evidente non avrebbero mai più costruito.
Ancora una volta c’era la tensione data dall’auspicio di una realtà prossima a venire e dal fallimento presente. Nessun elemento umano ma solo un dato oggettivo. Lì non ci sarebbero mai state case per umani e l’abbandono del luogo lo lasciava intendere inequivocabilmente. Ho composto la foto lasciando intravvedere delle case all’orizzonte, forse vendute, forse no. Forse abbandonate, ma comunque anche quelle figlie di tempi informati da un ottimismo che era morto nel frattempo. Le case costruite all’orizzonte sono inquadrate dai brandelli del cartello, abbandonato a sua volta da chissà quanto. In alto c’è una didascalia della foto che appare nella foto stessa: dice che cosa avrebbero costruito e quindi spiega già tutta la foto: un auspicio trasformatosi in fallimento. E quei brandelli lo dicevano perfettamente.
Anche in questo caso c’è conflitto e soprattutto c’è la dimensione temporale: quello è un presente che conduce la mente di chi l’osserva al passato e al futuro.
Naturalmente nessuna di queste foto c’entra con lo storytelling che piacerebbe a un’azienda: non ci sono prodotti da vendere, non ci sono parole entusiaste a descriverne le doti. Non sono neppure foto belle che appagano i sensi: non hanno bei colori, non hanno bei soggetti. Quello è un altro tipo di fotografia (che personalmente trovo molto noioso).
Eppure, nel loro piccolo, credo che contengano delle storie il cui tempo si espande un po’ prima e un po’ dopo di quello che si vede.
Una foto può essere una semplice immagine che si conclude nell’attimo che descrive. Quando racconta una storia però si espande nelle menti di chi la guarda e abbraccia passato e futuro. Questa capacità le viene dalla tensione fra gli elementi che la compongono. È in questi frangenti che un’immagine esce dai bordi che la inquadrano e diventa qualcosa di interessante o, in altre parole, diventa una storia.