Una vecchia macchina digitale

Recensione concettuale e poco tecnica della Fuji X100

7 min readJan 8, 2022

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Recentemente ho comprato una nuova macchina fotografica. Definirla “nuova” non è proprio corretto perché in realtà si tratta di una macchina digitale che ha 10 anni, che in termini tecnologici sono praticamente un’era geologica. Per dare un’idea di quanto poco sia capace tecnicamente basta dire che qualsiasi cellulare — anche il più economico — ha un sensore che la umilierebbe, per non parlare poi delle sue dotazioni in termini di fotografia computazionale: semplicemente non esistono.
In verità comprandola ho fatto qualcosa di più che acquisire un pezzo di memoria storica. Non avevo e non ho mai avuto alcuna velleità da collezionista: guardo con interesse le vecchie macchine fotografiche ma non ho alcun desiderio di possederle né tantomeno di usarle.

Quello che volevo — e l’ho capito poi — era tornare al grado zero della fotografia. Non in senso assoluto ma relativo: rispetto al digitale, una macchina che ha 10 anni (è del 2011) è quasi all’origine della fotografia digitale, sebbene questa esistesse da almeno 10 anni.

Ho comprato una Fuji X100 e ho fatto benissimo.

Forse la mia decisione è ancora più incomprensibile qualora si consideri cosa è questa macchina.
- Ha un sensore da poco più di 12 megapixel
- È lenta
- Ha un display con una definizione imbarazzante
- Ha pochissime configurazioni personalizzate
- Ha poche simulazioni di pellicola (per chi non lo sapesse, le Fuji sono famose per i preset che simulano pellicole analogiche)
- Ha un buffer (il tempo che impiega a trasferire le immagini dal sensore alla card, cioè, in altri termini, il tempo in cui è impegnata a fare altro e tu puoi solo scattare, non vedendo però ciò che hai scattato) di lunghezza biblica
- ha un obiettivo che, quando è tutto aperto, ha poca definizione e molta morbidezza (per dirla elegantemente)
- Ha un batteria sottodimensionata
- Ci mette un po’ ad avviarsi
- È perfetta per la street photography (di 10 anni fa)

Eppure dal primo scatto che c’ho fatto ho capito che me ne sarei innamorato, e così è stato.

Una questione di carattere

La X100 non fa molto per metterti a tuo agio, ma è solo un’impressione. Esteticamente è bellissima e ricorda una macchina a pellicola di molto tempo fa. Ha un design così riuscito che le successive versioni (ne sono uscite altre 4: la X100S, X100T, X100F e X100V — le lettere indicano la numerazione, S per “second”, T per “third” e così via) non sono cambiate molto. È maneggevole, resistente, ha un solido corpo metallico che sorprendentemente non pesa molto, ha dimensioni contenute al punto che la si può tenere nella tasca di una giacca. Anche perché — e questo è forse il suo aspetto più interessante — ha un’ottica fissa da 27mm che, convertita, le permette di scattare come con un 35mm. Ottica fissa significa nessuno zoom, nessuna possibilità di cambiare obiettivo, assetto secchissimo e minimo: c’è tutto quello di cui si può aver bisogno per fare street photography e non c’è niente di ciò che si potrebbe desiderare. E significa anche uno spessore molto contenuto, che permette di renderla davvero poco ingombrante.

Cosa si ottiene quando a una macchina fotografica si toglie tutto quello a cui ci hanno abituato in questi anni? Si ritorna al grado zero della fotografia, appunto: c’è solo il necessario, fine.

Il grado zero

La macchina fotografica è una scatola con un foro che contiene al suo interno qualcosa di fotosensibile. Ridotta la questione all’osso di questo si tratta, anche se la X100 è decisamente più evoluta di una scatola da scarpe con un buco.

Quello che intendo è che fotografare con lei mi ha dato la possibilità di ritornare alle premesse.

Alla fine cosa significa fotografare? Tecnicamente è l’atto del comporre un’immagine all’interno di un fotogramma, impressionando una pellicola o un sensore digitale dopo aver aperto l’otturatore e aver lasciato entrare la luce.
Concettualmente e filosoficamente significa invece fare una cosa precisa in un momento presente. Significa, appunto, essere presenti.

La fotografia con i cellulari — che sia sempre e comunque benedetta — ha abbassato la soglia di attenzione che dedichiamo allo scatto. Ci ha resi molto più pigri. Inquadriamo e scattiamo: per quanto da schifo possiamo averlo fatto, l’algoritmo correggerà lo scatto restituendoci un’immagine quasi perfetta, di certo accettabile. Con il cellulare è davvero difficile fare una foto schifosa o sbagliata.
Con le macchine fotografiche — almeno finché non saranno infarcite di algoritmi per la fotografia computazionale (e secondo me succederà abbastanza presto) — è più difficile ottenere immagini belle come quelle scattate da un cellulare, perché l’immagine che restituiscono è quella che ha impressionato il sensore, con pochissimi interventi del software, spesso nessuno.
Con le macchine vecchie di 10 anni, come la X100, è ancora più difficile ottenere foto paragonabili a quelle perfette del cellulare. Quindi cosa me la fa preferire? Il durante e il dopo, ossia l’atto dello scattare e lo scatto in sé.

Vedere, comporre, scattare. Guardare, poi.

La fotografia — almeno quella spontanea, fatta delle cose che si notano per strada o a casa senza averne pianificata alcuna — alla fine è questo: prestare attenzione alla realtà, vederne sotto il suo velo un’altra, raccoglierla con uno scatto. E poi riguardarla, in un momento diverso. Questa sequenza era ovvia decenni fa quando esisteva solo la pellicola: prima di rivedere l’esito degli scatti bisognava aspettare giorni, a volte settimane, in attesa che il laboratorio li sviluppasse.

La fotografia digitale ha stravolto il nostro rapporto con il tempo: possiamo rivedere subito quello che abbiamo scattato pochi istanti prima e, di conseguenza, nel presente che stiamo ancora vivendo possiamo rivivere un passato appena accaduto. Questi portati dell’evoluzione della fotografia sono spesso poco considerati ma è ragionevole pensare che la nostra mente li abbia subiti, positivamente o negativamente.

Chi è stato abituato a fotografare a pellicola ha sempre avuto un certo rapporto con i propri scatti: la mente sapeva collocarli in un certo contesto temporale composto dal presente in cui accadeva lo scatto e un futuro in cui si poteva rivivere il passato, riguardandolo. Ora queste tre dimensioni sono una unica: perfettamente appiattite nel tempo digitale che è ora e qui e contemporaneamente passato, presente e futuro.

Fotografare con la X100 mi ha riportato a quella struttura temporale: le dimensioni del tempo scandite in passato, presente e futuro. E ha ristabilito la magia della fotografia che permette di riattivare il passato nel futuro, mentre accade nel presente. Per usarla devo essere presente e attento, e quel che ho scattato lo vedrò più avanti, fra qualche ora o qualche giorno, quando sarà diventato passato.
Come è possibile trattandosi pur sempre di una macchina digitale? In verità la si potrebbe usare come tutte le altre macchine simili, cioè scattando e poi riguardando subito compulsivamente cosa si è scattato ma è così poco reattiva e ha un display così poco definito che rimandi tutto a più tardi, a dopo. Le riguardi sul computer, con calma, quando avrai voglia di scaricarle. Perché ovviamente non c’è wifi e non le puoi guardare nemmeno sul cellulare.

Se dovessi trovare il suo più grande pregio direi che ha la facoltà di rallentare il tempo, facendotene sentire la gravità. E non è un affanno, non è affatto sgradevole: non è un tempo rallentato ma è il corretto fluire del tempo.

Se la dovessi infine paragonare a qualcosa direi che è come un taccuino. Non nel senso che serve ad annotare cose (visive) o non solo. Piuttosto nel senso che l’atto dell’annotare (del fotografare) richiede tempo e concentrazione. Spesso la fotografia con il cellulare è paragonata a un’annotazione visiva ma quella fatta con la X100 (e vale anche per tante altre camere di quegli anni) è più meditativa, più partecipata. Quando si scrive a mano su un taccuino si fa solo quello, lo si fa nel tempo e con il tempo, prendendosi il tempo di farlo. Fotografare con una X100 significa concentrarsi a farlo, come se si disegnasse un’immagine: la si accende, si controllano i parametri, si decide la posa, si mette a fuoco, si scatta. C’è una storia in ogni scatto e non è quella che appare nel fotogramma (non solo) ma è anche quella di chi l’ha scattata, di quel frammento di vita in cui hai deciso di estrarla dalla tasca, togliere il copriobiettivo, accenderla, controllare tempi e diaframmi, guardare dentro il mirino (che può anche essere solo ottico e non solo digitale, ma mi dilungherei troppo a parlarne), comporre e scattare.

Quel che ne vien fuori non è più il tempo appiattito e perfetto dello scatto rivisto da un algoritmo di un cellulare ma è un tempo più dilatato, più indefinito, più impreciso e più impressionista.
Più umano e più vero, alla fine.

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Martino Pietropoli
Martino Pietropoli

Written by Martino Pietropoli

Architect, photographer, illustrator, writer. L’Indice Totale, The Fluxus and I Love Podcasts, co-founder @ RunLovers | -> http://www.martinopietropoli.com

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